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Una coppia di bassa estrazione sociale, l'amore, il tentativo rozzo di entrare a far parte di una "società", la reazione dei "detentori" di questo modello, il conseguente disgusto della coppia e il trionfo della consapevolezza della libertà: da una parte potrebbe apparire pura convenzione, e il fatto che si tratti appena del secondo film di un regista nel dopoguerra potrebbe rafforzare questa convinzione. Tuttavia questo regista è Bergman, per quanto mi riguarda il più grande o uno dei più grandi, e nonostante anch'io riservi sempre le solite pregiudizievoli riserve nell'approcciare i suoi primissimi film, anche stavolta ho trovato la visione tanto piacevole quanto scorrevole. Perché? Il motivo è semplice: sia la coppia protagonista che i personaggi di contorno rappresentano i prototipi dei film del decennio seguente del regista svedese. Il tema della procreazione, così dannatamente ossessivo in tutta la filmografia del regista ('Alle soglie della vita', 'Il posto delle fragole', ‘Persona' ecc…) è già un nodo centrale. Altro aspetto interessante è la comparsa dell'ombra del padre, autoritaria e stigmatizzante, nella fattispecie un pastore burocrate particolarmente odioso. Chiaro stampo teatrale e sceneggiatura esile prendono il sopravvento, sia chiaro, ma a tratti già si scorge una poetica in divenire. La requisitoria dello strano ma audace avvocato difensore colpisce per la sua immediatezza. Colpiscono molto alcuni personaggi chiave come il terrificante padrone di casa o l'esattore (Gunnar Bjornstrand già in gran forma), così come la vicina di casa: figure grottesche, meschine o di buon cuore. Birger Malmsten, attore protagonista di alcuni primi film di Bergman, se la cava piuttosto bene. C'è fin troppa speranza, quella acerba e giovanile, ma va bene così.