Recensione noi credevamo regia di Mario Martone Italia, Francia 2010
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Recensione noi credevamo (2010)

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locandina del film NOI CREDEVAMO

Immagine tratta dal film NOI CREDEVAMO

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Immagine tratta dal film NOI CREDEVAMO

Immagine tratta dal film NOI CREDEVAMO

Immagine tratta dal film NOI CREDEVAMO
 

Forse il momento più alto del film "Noi credevamo" è quello, atroce, in cui si descrive la fucilazione sommaria di alcuni volontari garibaldini, comandata da un ufficiale dell'esercito piemontese (pardon, "italiano"), in un livido domani dello scontro che avvenne in Aspromonte, nel 1862, tra l'esercito regolare e i volontari che erano convenuti per tentare una spedizione volta alla presa di Roma (ancora pontificia).
"Non è indicativo che nella coscienza comune di tutti noi – scrive Martone nel libro che accompagna l'uscita del film – l'Aspromonte abbia sostanzialmente prodotto soltanto quella canzoncina che i bambini canticchiano a scuola? ‘Garibaldi fu ferito... Questa canzoncina è l'unico ‘lascito', nella nostra coscienza di italiani, di quella che è stata l'alba tragica del nostro Paese: lo scontro fratricida tra l'esercito regolare italiano e i volontari guidati da Garibaldi. Forse è una tragedia troppo forte? Forse ci spaventiamo guardando al nostro presente, perciò la rimuoviamo?".

Aspromonte

Anche se l'idea del film nasce molto prima, l'anno in cui è uscito nelle sale è lo stesso in cui corre il 150° anniversario dell'Unità d'Italia: il rapporto, sia pure casuale, non poteva evitare di essere instaurato: anche perché negli stessi mesi dello stesso anno, è stato pubblicato pure il romanzo "I traditori" di Giancarlo De Cataldo, il quale insieme a Martone ha firmato la sceneggiatura del film e che, nel suo romanzo, affronta lo stesso periodo storico: il "Risorgimento".
Il Risorgimento è stato definito una rivoluzione tradita. Non c'è stata alcuna liberazione, in Italia, nessun tentativo di sollevazione popolare, che non sia stato, in quegli anni, represso nel sangue. I confini di quelli che da allora è l'Italia sono il risultato di annessioni, quasi improvvise (avvenute fra il 1859 e il 1860, e, qualche anno più tardi, nel 1866 e nel 1870), da parte della monarchia sabauda: annessioni resesi possibili sfruttando, con opportunismo politico, i momenti in cui lo scacchiere politico europeo lo permetteva.

Il divario tra nord e sud, ancora oggi mai sanato, fu – nei primissimi anni dell'"unità" – non quel problema cui l'annessione piemontese avrebbe posto rimedio, bensì ne risultò persino aggravato. Il tradimento degli ideali (quelli sociali, prima di quelli patriottici) fu a maggior ragione lancinante, se si considera come grandissima parte delle istanze "risorgimentali" eran sorte proprio nel Meridione, dove ebbero terreno fertile come istanza prima di tutto di rinnovamento sociale, in una condizione endemica di arretratezza economica.

Questo il sostrato su cui poggia il film di Mario Martone, il suo punto di partenza e il suo punto di arrivo. La pellicola si apre nel Cilento del 1828, dove una sollevazione popolare fu repressa brutalmente da parte delle milizie del Regno delle Due Sicilie, e va a chiudersi (prima di un epilogo torinese) sempre in Cilento, e poi in Aspromonte, dove è ora l'esercito del Regno d'Italia ad occuparsi della repressione.

Un racconto ellittico

Protagonisti del film sono Domenico, Angelo e Salvatore: tre ragazzi cilentini nel 1828 – poi cospiratori repubblicani mazziniani – le cui vicende, sempre più indipendenti tra loro, vengono seguite in modo ellittico fino a quel 1862 che segna l'amara assunzione di consapevolezza, di un sogno tradito dai fatti.
Il film può essere seguito e compreso anche senza conoscenza storica del periodo, grazie proprio alla sua struttura fortemente ellittica, che si concentra sui personaggi, invece che sugli eventi storici. Sono sottratte (anche dalle didascalie) le date-chiave, e sono del tutto elusi gli eventi storici canonici (così come non fa mai la sua comparsa il principale artefice politico dell'unità: quel Cavour che era presente in sceneggiatura fino al penultimo trattamento). A volte, in "Noi credevamo", gli episodi raccontati appaiono collaterali alle stesse vite dei protagonisti. Dal loro insieme non scaturisce un "intreccio" coerente in senso tradizionale.
Martone sceglie di parlare della nascita dell'Italia con una modalità simbolica che mira ad essere universale: le stesse ambizioni quindi de "Il vento che accarezza l'erba" di Ken Loach, capolavoro che in modo molto più compatto racconta dell'analogo esito fratricida di una guerra di liberazione nazionale – quale se non altro è stata per davvero, la guerra d'indipendenza dell'Irlanda, al contrario del risorgimento italiano.

"Noi credevamo", dopo il prologo nel Cilento del 1828, si compone di quattro parti, delle cui prime tre ciascuna è intitolata a uno dei protagonisti, mentre l'ultima ("L'alba della nazione") è ambientata nel 1862, e vede protagonista il solo Domenico.

La prima parte, intitolata a Salvatore, è la più difficoltosa da seguire, e, a nostro parere, è poco riuscita. Si avverte lo sforzo – e l'esito non completamente felice – di dare avvio alla narrazione, dovendo allo stesso tempo fornire allo spettatore (sin troppi) personaggi e spunti. In essa, non è dato il tempo di familiarizzare con i tre personaggi, né di comprenderne adeguatamente le differenze di temperamento (per arrivare a questo, occorre andare molto avanti nel film).
Anche il personaggio, centrale in questa parte, di Cristina di Belgiojoso, è appena abbozzato: non giova la recitazione di Francesca Inaudi, che rimane accademica, e non gli dà linfa vitale.
In questa prima parte, il personaggio di Salvatore si trova "sballottato" (insieme ad Angelo e Domenico) fra Parigi e Torino, con una puntata a Ginevra da Mazzini, e un epilogo nuovamente in Cilento. Ma il film sino a questo punto ha ruotato anche attorno alla vicenda di Antonio Gallenga, fallito tirannicida di Carlo Alberto.

Al contrario della nervosa dislocazione della prima parte, la seconda (intitolata a Domenico) è tutta chiusa entro le mura del carcere borbonico di Montefusco. Qui ritroviamo, anni dopo, Domenico (che da questo momento è interpretato da Luigi Lo Cascio, probabilmente in una delle sue migliori interpretazioni), insieme a un gruppo di prigionieri politici, di cui alcuni realmente esistiti (tra cui spicca Sigismondo di Castromediano, interpretato da Andrea Renzi). La seconda parte ha una notevole tenuta (e momenti cinematograficamente molto alti); appare meno didascalica della prima (anche se è rivolta sostanzialmente ad illustrare i rapporti tra l'ideologia dei repubblicani e quella dei moderati). Tuttavia, nell'economia del film, la seconda parte è statica, e tiene ancora lontano il film dal prendere il volo.
Se si giunge a metà pellicola senza aver ancora individuato un centro motore della storia, questo si rivelerà un elemento di fascino del film, anziché un difetto: scopriremo infatti, gradualmente, che esso apre diverse prospettive sulla sua complessa materia: mira a lasciare aperti gli interrogativi che solleva, lungi dal chiudersi in una ricostruzione rappacificata della nostra Storia. Ciò non toglie che a soffrirne sia la struttura drammaturgica, che non appare nella prima metà felicemente risolta.

La terza parte, intitolata ad Angelo, vede quest'ultimo (Valerio Binasco) coinvolto nella preparazione dell'attentato (fallito) all'imperatore francese Napoleone III, organizzato nel 1959 da Felice Orsini (Guido Caprino).
Questa vicenda intende aprire uno squarcio sulle conseguenze abissali cui conducono gli ideali democratici quando sconfinano nella lotta armata, condotta con i metodi del terrorismo eversivo.

La quarta e ultima parte ha inizio a unità d'Italia compiuta, e termina come detto in Aspromonte (con un epilogo torinese). Ci viene finalmente permesso di tirare le fila di tante vicende, e di comprendere come questi uomini rappresentino, ciascuno, una modalità diversa di esprimersi dello stesso spirito: Salvatore incarna il disincanto e la rassegnazione precoce, Angelo la deriva terrorista, Domenico l'eroica resistenza – e infine il fallimento – di un'utopia. Tutte queste modalità sono state sconfitte.

Mentre i personaggi di Salvatore e di Angelo sono d'invenzione, o risultano dal collage di personaggi realmente esistiti (lo stesso metodo adottato da De Cataldo, co-sceneggiatore, già per "Romanzo criminale"), la vicenda di Domenico è ispirata alla vita di Domenico Lopresti, che è poi anche il protagonista del romanzo "Noi credevamo" di Anna Banti (nome d'arte di Lucia Lopresti: la nipote).
Il (bellissimo) romanzo omonimo cui il film è ispirato porta una data rivelatrice: il 1967. La profonda, cinica disillusione con cui, nel romanzo della Banti, il personaggio di Domenico racconta in prima persona la sua vicenda, con l'amarezza di chi ha visto crollare tutti i suoi ideali, mette i brividi se pensiamo che l'autrice scriveva agli albori di una stagione di lotta, le cui istanze sociali più avanzate sono state, nuovamente, quasi del tutto disattese.

"Eravamo tanti, eravamo insieme, il carcere non bastava; la lotta dovevamo cominciarla quando ne uscimmo. Noi, dolce parola. Noi credevamo...". Queste parole, con cui la Banti chiude il suo romanzo, Martone le fa pronunciare a Domenico, fuoricampo, prima dei titoli di coda. L'allusione a un presente in cui si crede con meno vigore e meno speranza (sempre che si creda), nel 2010 è ancora più livida di quanto non lo fosse già nel 1967.

Il trasformismo di Crispi. Una rivoluzione tradita

In origine gli ideali risorgimentali avevano due anime inconciliabili: quella repubblicana democratica, eversiva e radicale, e quella liberale, moderata, che all'epoca non poteva che esser monarchica: in astratto riformista, ma in definitiva conservatrice.
Martone non fa mistero di aderire all'ideale repubblicano, quello in cui pulsavano istanze di rinnovamento più autenticamente sociali.

Tuttavia – come ovunque è sempre stato – ogni sollevazione popolare, per l'attuazione rivoluzionaria di quelle istanze, è stata destinata a venire repressa nel sangue, a meno che una èlite non si sia avvalsa di essa per vincere una rivoluzione, salvo poi instaurare una dittatura spesso più feroce del regime precedente. Nel caso del risorgimento, tutti i tentativi insurrezionali sono stati brutalmente repressi (Milano, Venezia, Roma: nel biennio 1848-‘49), oppure sono stati strumentalizzati: la partecipazione dei mazziniani all'annessione avviata da Cavour è, sostanzialmente, quella di colui che è stato determinante nel preparare un terreno, i cui frutti vengono raccolti poi da qualcun altro.

Nel 1860, al momento dell'unità d'Italia, molti fra coloro che erano stati ferventi rivoluzionari si trovarono "riabilitati": spesso furono loro offerte poltrone nelle istituzioni statali. E' il caso di Francesco Crispi.
In questo modo, si iniziò ad alimentare quell'equivoco che nei testi di Storia rimane non chiarito: in che misura si può asserire che l'Italia sia stata "fatta" da Mazzini e dai repubblicani in generale, oltre che da Cavour?

Nell'epilogo torinese di "Noi credevamo", Domenico assiste, nel parlamento italiano, al celebre discorso con cui Crispi si fa monarchico (interpretato da Luca Zingaretti, in una notevole caratterizzazione).
Francesco Crispi, mazziniano, era stato un acceso insurrezionalista, e probabilmente partecipò anche al fallito attentato a Napoleone III del 14 gennaio 1959 – un attentato che fece otto morti e centocinquanta feriti (oltre a dare il via alla catena di eventi che condusse, in meno di due anni, all'unità d'Italia): quello intorno al quale ruota la terza parte del film.
All'indomani del 1860, lo troviamo sugli scranni del parlamento di Torino, convertito in fervente monarchico. Più tardi diverrà anche primo ministro, attuatore di una politica rigidamente reazionaria, e avviatore del colonialismo.
Questo esempio estremo di trasformismo è stupefacente come lo sarebbe stato se avessimo visto Ché Guevara, anziché morto in Bolivia, riapparso a Washington come Segretario di Stato di Nixon.

Rivoluzione e terrorismo

"Noi credevamo" è un film doppiamente impegnativo: non solo comporta una rilettura critica del Risorgimento, che la coscienza storica degli italiani non ha affatto compiuto, ma contiene anche un interrogativo sulla dialettica fra rivoluzione e terrorismo – che rappresenta però un punto debole dell'opera.

Il primo riferimento esplicito al terrorismo sta nelle parole che pronuncia Mazzini (interpretato, con il consueto mestiere, da Toni Servillo) la prima volta che ci appare. Sono parole documentate: Martone ha voluto far uso, secondo la lezione di Rossellini, degli elementi della Storia evitando rielaborazioni artificiali. Mazzini avalla l'intento di Antonio Gallenga (che rinuncerà poi al proposito) di assassinare Carlo Alberto con un pugnale (un progetto che oggi sarebbe considerato quello di un kamikaze, giacché implicava la condanna a morte) con queste parole: "Penso con dolore a questo nostro amico che sta per sacrificarsi, ma so che in questo modo egli comincerà una seconda vita, e non solo in cielo, anche tra gli uomini. Anche lui lo sa, e questo pensiero lo conforterà, morendo".

La terza parte del film ruota per intero attorno alla preparazione dell'attentato a Napoleone III, ed inizia con una scena in cui vediamo Crispi negare il suo sostegno (per motivi strategici, non morali) a un progetto terroristico di rara efferatezza: far esplodere la cattedrale di Nôtre-Dame durante il battesimo del figlio di Napoleone III. Un progetto (mai compiuto ma realmente ideato) che avrebbe comportato la morte di centinaia di persone – e che Martone, parlando del film, paragona all'11 settembre.
L'odio dei repubblicani per Napoleone III ha una motivazione storica: è stato lui a soffocare la Repubblica Romana nel 1849. Fu un vero shock: proprio a quel Napoleone, l'anno precedente, era stato consegnato il potere dalla rivoluzione che aveva messo termine in Francia alla monarchia. Nel 1849, egli non aveva ancora tradito le istanze rivoluzionarie, come fece poi facendosi incoronare imperatore con il nome, appunto, di Napoleone III.
Tutto ciò, dal film, non si evince. Se non lo si sa, le mire tirannicide verso l'imperatore francese appaiono incomprensibili. Si deve dedurne che è stato cercato, scientemente, lo sgomento dello spettatore, chiamandolo a partecipare dall'interno ad un'azione terrorista, senza offrirgli la possibilità di capirne la causa.

Le vicende che vedono Angelo e Domenico continuare parallelamente la lotta, sono narrate con un'adesione che, allo stesso modo di come cerca la partecipazione emotiva alle scelte di Domenico, non opta per un distacco sinceramente neutro verso la "deriva" di Angelo, che viene narrata con un senso del tragico quasi compassionevole.

Il film dunque richiede allo spettatore, anzitutto, di saper distinguere tra il tempo presente e l'800, e poi lo provoca, chiedendogli di scindere criticamente un atto rivoluzionario da un atto terrorista: una distinzione che tuttavia facile non è. E spesso nemmeno possibile.
L'interrogativo  viene in effetti lasciato aperto: ma non senza una certa ambiguità. La prospettiva in cui viene collocato, infatti, è pur sempre quella dell'adesione all'istanza rivoluzionaria: tuttavia, senza poter risolvere a monte il dilemma per cui l'istanza rivoluzionaria convive facilmente con l'opzione terrorista, il discorso entra in circolo vizioso.
Si scorge la voglia di aprire interrogativi, laddove sarebbe forse urgente chiuderne.
Martone ha dichiarato che tra le sue fonti di ispirazione vi sono "I demoni" di Dostoevskij": in effetti nelle angosce di personaggi come Angelo, o nei discorsi che si tengono nel carcere di Montefusco, si avverte un'eco di Stavrogin o Kirillov. Martone tuttavia non sembra collocarsi nella prospettiva "ideologica" di Dostoevskij, e pertanto l'ascendenza non può essere che generica.

Del resto, è da pochissimo che il cinema sta provando a fare i conti con i cosiddetti "anni di piombo", e rimane inevitabilmente irresoluto, laddove coniuga la condanna dei "mezzi" alla condivisione degli ideali (pensiamo a "La prima linea" – ma la questione non è solo italiana: si veda soprattutto il superlativo "Carlos" di Olivier Assayas).
Resta il sospetto che, sotterraneamente, si provi un po' di nostalgia per l'istanza più radicale: ciò deriva, forse, dal non aver compiutamente elaborato la Storia recente. Un altro sospetto è che vi sia, anche, una mal rimossa voglia di mettere in discussione la condanna dei metodi eversivi imposta dall'adesione alla legalità e al "politicamente corretto". Se così fosse, non sembra aversi il coraggio di condurre il discorso sino alle estreme conseguenze, e lo si lascia invece in sospeso.
Il film di Martone, volendo parlare dell'Ottocento in modo universale, e quindi anche del passato prossimo e del presente, appare in questo frangente vertiginosamente sospeso su di un baratro, per superare il quale non ha completato il ponte.

Cemento armato

Come questo ponte lasciato a metà, altrettanto incompiuta appare, verso la fine del film, una abbandonata struttura in cemento armato, sotto la quale Domenico trova rifugio per una notte, e che appare vistosamente anacronistica nel 1862.
Già prima, nel film, avevamo notato l'anacronismo di una scala di metallo che conduce a un sotterraneo – un garage con tanto di luce al neon – in cui si prepara l'attentato a Napoleone III.
E' Martone stesso ad indicare come, volutamente, sin dall'inizio del film, e in crescendo sino alla visibilità assoluta di quella enorme struttura in cemento armato, vi siano vari elementi scenografici contemporanei che fanno irruzione nella pellicola.

L'intenzione è quella di creare un aggancio fra l'800 e il presente. Un aggancio che in quella struttura di cemento armato vuole essere simbolico: sta ad indicare una costruzione interrotta come l'Italia, e allude anche all'abusivismo edilizio nel Meridione, come alla prassi di avviare opere e lasciarle incompiute.
Il dubbio è che questo simbolo, pur essendo iconograficamente una licenza molto ardita (quindi notevole), stoni. Anche perché si innesta male. Appare più che altro pretenzioso, e ingenuo insieme: non è solo per un limite di preparazione dello sguardo se lo spettatore sospetta inizialmente un errore di messa in scena.

La messinscena: un film duro come un sasso

"Noi credevamo" è un film però anche molto bello. La messinscena è spoglia e rigorosa, e specialmente a cominciare dalla seconda parte si fa scabra, dura come un sasso.
Martone si è avvalso splendidamente dei limiti di budget, per parlare in modo assolutamente non convenzionale e antiretorico. Rifugge dai canoni della fiction televisiva, e rifiuta ogni concessione non solo alla spettacolarizzazione, ma anche a una forma accademica di estetismo che sia di ascendenza viscontiana.
Specie nella seconda parte – quella ambientata per intero nel carcere di Montefusco – si ha modo di apprezzare in "Noi credevamo" uno stile molto vicino a quello di alcune delle cose migliori dei fratelli Taviani (si pensi a "San Michele aveva un gallo").

Le musiche, poi, sono splendide e s'intonano benissimo alla pellicola: si tratta di brani classici e di opera lirica, che contribuiscono non poco a creare le giuste atmosfere.

La ridondanza sfiorata

"Noi credevamo" è film complesso e ambizioso, a volte pecca di didascalismo, ma più spesso è ardito. Appare infine disomogeneo nelle sue parti, ma all'interno di una complessiva omogeneità stilistica.
La disomogeneità deriva dall'incompleta riduzione della complessità della materia: alcuni episodi (ad esempio il ritorno di Gallenga, più anziano, interpretato da Barbareschi), e alcuni altri personaggi cui non si è fatto cenno, appaiono troppo estranei al corpo centrale del racconto. E' come se gli sceneggiatori non fossero stati completamente capaci di tenere a freno l'urgenza di assommare temi e spunti (è un difetto che si riduce man mano che il film procede, fino a scomparire totalmente nella bellissima quarta parte). Forse avrebbe giovato la potatura ulteriore di altre parti, come è successo per quella in cui appariva la figura di Cavour. E non per una questione di lunghezza, ma di compattezza.

Il film, insomma, è ibrido: da una parte è asciutto ed essenziale fino all'osso, dall'altra sfiora il rischio di essere persino ridondante.
L'impressione è che la colpa di Martone sia di non aver tenuto del tutto a freno De Cataldo in fase di sceneggiatura. Appartiene senza dubbio a De Cataldo infatti un certo barocchismo narrativo, il gusto della frammentarietà, l'aggiunta di molte tracce e sottotracce innestate tra loro. Ma in un film storico che vuole mantenersi spoglio e non retorico, un simile gusto della ridondanza è molto rischioso, ammesso che possa funzionare anche sulla carta. E infatti funziona solo entro un certo limite: il romanzo "parallelo" di De Cataldo "I traditori" è sin troppo "pieno", col risultato di finire per essere un febbrile feuilleton, cui manca fiato e che resta troppo in superficie, pur mettendo tantissima carne al fuoco.
Il film, per fortuna, non è così: prevale lo stile di Martone, prevale l'asciuttezza ma soprattutto l'intensità di molti momenti di altissimo cinema.
I personaggi di "Noi credevamo" sono vivi, vitali: soffrono e in loro si avverte un elemento tragico, che non trova approfondimento nel romanzo di De Cataldo, dove prevale il cinismo di un disincanto troppo compiaciuto e poco dolente.

La disillusione di un esule in patria

Martone prevale, alla fine: nello stile, ma anche nella poetica. De Cataldo – nel suo romanzo – è interessato al disvelamento storico: vuole svelare il ruolo dei servizi segreti, il ruolo dell'Inghilterra, i rapporti tra il fronte dei mazziniani e Cavour, il ruolo della mafia e quello della camorra, ecc...
L'interesse di Martone sta altrove. Resta affine al romanzo della Banti nel mettere in scena il disincanto profondo delle illusioni. Mentre il Domenico della Banti è però un vecchio astioso, che ormai ha perduto ogni gioia di vivere, e trasmette un estremo, quasi insopportabile distacco dal proprio passato, il Domenico cui si ferma Martone è ancora giovane: in lui il segno della disillusione è più cocente.

Il succo di "Noi credevamo" non è poi tanto distante dal primo film di Martone, quel "Morte di un matematico napoletano" che per noi resta il suo capolavoro. Il Domenico di questa pellicola si ferma un attimo prima dell'anarchico Caccioppoli, vittima di un disincanto feroce, personaggio vertiginoso e affascinante, che si apprestava a tagliare ogni residuo ponte con il mondo.
E si pensi in questo senso anche al personaggio interpretato da Fanny Ardant nel precedente film di Martone, "L'odore del sangue".

La poetica di Martone indulge al fascino decadente e quasi morboso di figure che non credono più in nulla, sovrastate da ogni delusione. Martone scrive, a riguardo di questo suo ultimo film: "Il titolo ci dice che il film è il racconto di una sconfitta, e non c'è dubbio che Noi credevamo sia un film tragico".
Però aggiunge anche: "Ma quando dico tragico, intendo anche catartico. Vorrei cioè che desse una spinta all'azione. Il punto non è che tutto è finito, il problema è che tutto è da cominciare".
Ecco: abbiamo il sospetto che il film non corrisponda esattamente a queste intenzioni.
Il film è sì emotivamente catartico (del genere di catarsi che è presente nei tragici greci): però trasmette ben poca speranza che le cose possano cambiare, oggi, proprio nel momento in cui ci dice che, chi "credeva" forte e intensamente, non ha avuto neppure allora gli strumenti per far sì che le cose cambiassero.
Da un punto di vista civile (e fuori da un giudizio estetico), mi sembra che questo film non fornisca strumenti utili a uscire dall'empasse in cui è sin troppo chiaro tutto ciò che non funziona, ma non si ha alcuna intuizione in merito a dove metter mano per "cominciare".
E come opera d'arte (dunque in senso estetico, stavolta), il film di Martone si colloca in pieno nel decadentismo, e non è poi troppo distante, a parte l'approccio stilistico, da "Il Gattopardo". Chiamiamolo pure post-decadentismo. E' anche questo segno di tempi irrimediabili?

"(...) Ma io, con il cuore cosciente
di chi soltanto nella storia ha vita,
potrò mai più con pura passione operare,
se so che la nostra storia è finita?
"

Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci

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Recensione a cura di Stefano Santoli - aggiornata al 29/11/2010 15.53.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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