Recensione the addiction - vampiri a new york regia di Abel Ferrara USA 1994
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Recensione the addiction - vampiri a new york (1994)

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locandina del film THE ADDICTION - VAMPIRI A NEW YORK

Immagine tratta dal film THE ADDICTION - VAMPIRI A NEW YORK

Immagine tratta dal film THE ADDICTION - VAMPIRI A NEW YORK

Immagine tratta dal film THE ADDICTION - VAMPIRI A NEW YORK

Immagine tratta dal film THE ADDICTION - VAMPIRI A NEW YORK
 

Abel Ferrara fin dai primi anni '90 aveva affrontato la poetica della disperazione e del male con due ottimi film, "King of NY" e "Il cattivo tenente"; se nel secondo di questi il lato autodistruttivo passava direttamente per l'iconografia cattolica, nel primo il lato vampiresco della realtà umana aveva già fatto una, seppur rapida, apparizione. Il protagonista Cristopher Walken aveva una natura spettrale, un pallore vampiresco, e tale aspetto era sottolineato anche dalla scena in cui un boss cinese guardava incantato il "Nosferatu" di Murnau.
Quella che poteva sembrare una semplice citazione si rivelò, a distanza di quasi cinque anni, un preludio per questo "The addiction", in cui il genere vampiresco viene elevato inserendo un significato sociale e politico dietro i "mostri", allontanandosi così dalla moda degli horror truculenti di quegli anni per tornare verso lo stile di Romero, inchinandosi più di una volta al suo grande film "La notte dei morti viventi".

Kathleen Conklin è una giovane studentessa di filosofia che si interroga sui problemi morali del genere umano. Una sera, mentre torna a casa, viene aggredita da una strana creatura che le succhia il sangue. Da questo evento dinamico il morbo del vampirismo si fa strada dentro di lei costringendola a fare i conti con la sua natura più nascosta.

Il nucleo fondamentale del film è la volontà, o per essere più precisi, la volontà di scelta. Il vampiro offre a Kathy una possibilità di fuga, purché lei lo voglia veramente. E' questo il dilemma. Non basta dirlo, bisogna volerlo. Il vampirismo come droga e quindi il ritorno al titolo "The addiction", ossia "la dipendenza". Lo stesso Ferrara ha dichiarato : "È una tragedia morale in un contesto vampiresco. Non ho mai pensato a "The Addiction" come a un film di vampiri. Mi sono piuttosto riferito alla dipendenza che tutti noi condividiamo, alla fascinazione che proviamo nei confronti del male e della violenza e che sembra scorrerci nelle vene".
Perciò non si parla solo di dipendenza dalla droga, come erroneamente molti critici hanno scritto; questa è solo una lettura superficiale. Forse il corpo può dipendere dalle droghe, ma lo spirito? Qual è la vera dipendenza del genere umano? La risposta per la coppia Ferrara - St. John (rispettivamente regista e sceneggiatore) è il male: "Non siamo malvagi perché facciamo del male, ma facciamo del male perché siamo malvagi", dirà ad un certo punto la protagonista, e continuerà chiedendosi, mentre osserva una mostra fotografica dell'olocausto nazista, "cosa fermerà l'uomo a profondere il male in cerchio sempre più ampi?". Ecco qual è la scelta di cui si parlava all'inizio, la scelta vera che l'uomo deve compiere. Quando il male (sotto forma di vampiro) si pone davanti a Kathleen, lei non si oppone veramente, si lascia condurre, si lascia "infettare", vivendo così, come in molti film della coppia di autori newyorkesi, una spirale di disagio e angoscia, una via crucis personale, emotiva e violenta. Ed ecco il riaffiorare di tematiche care agli autori quali il peccato come colpa e soprattutto condanna, il concetto di libero arbitrio, il determinismo (tutte tematiche che sfoceranno, chiudendo il cerchio, nel successivo capolavoro "The funeral").

L'unico essere che sembra aver trovato un suo equilibrio è Peina, il vampiro interpretato da Cristopher Walken, figura nichilista Jungeriana che mostrerà a Kathy il suo "non essere niente". E' lui la figura più "umana", colui che conscio della propria essenza riesce ad essere super partes ed a riconciliarsi con la Recherce proustiana in principio sottovalutata ricollegandosi direttamente alla scena in cui il professore di Kathy scrive sulla lavagna indicazioni sul concetto di tempo secondo Sartre e Heidegger. Secondo Peina l'umanità non può essere al di la del bene e del male, ma l'uomo può controllare i suoi istinti, imparare col tempo ad "astenersi" o meglio ancora accettando il vizio come sollievo (non a caso viene citato Burroughs).

Il film non è scevro da pecche - l'eccessivo citazionismo su tutte - ma la sua grandezza risiede nel perfetto equilibrio filosofico creato da St. John che, dalle metafore e dalle citazioni dell'irrazionalismo, ricrea un mondo metafisico, dà corpo alla volontà di potenza e costruisce un sottile gioiello narrativo in cui la filosofia non è speculativa, ma messa in scena. C'è Burroughs, discussioni filosofiche a non finire unite a dilemmi morali, l'humour nero in perfetto stile Hammer, c'è perfino la "speranza ingenua di un nuovo umanesimo, con un'ostia consacrata che basta ad uccidere e seppellire il vampiro che è in noi", come ha scritto Nazzaro nel suo volume monografico dedicato ad Abel Ferrara.
Eppure anche questo getta un'ombra oscura sul film perché ad un certo punto Kathleen afferma che la droga ha un duplice aspetto: da un lato esalta, dall'altro ottunde la coscienza; beviamo per dimenticare di essere alcolisti, ci droghiamo per dimenticare di essere drogati. La droga quindi come palliativo per la nostra stessa dipendenza.
Kathleen, però, non riesce come Peina ad arrivare all'autocontrollo, ma esce dalla propria situazione per il tramite della comunione. Il vampirismo in lei muore (si noti anche che sulla tomba la data di morte è il primo di Novembre) e Kathleen assurge a nuova vita. L'uomo è stato creato malvagio, è stato creato dipendente proprio perché così necessita di "redenzione", necessita perciò di perdono e dunque di Dio. Ma questo "apparente" happy end potrebbe invece avere una lettura più sottile, ricordando quanto detto da Marx quando affermava che le religioni sono come l'oppio e creano dipendenza: non si può uscire da una dipendenza senza crearsene un'altra.
Ecco forse la lettura più amara del film, visto anche in prospettiva di quanto accaduto al suo sceneggiatore, che dopo la morte del primo figlio si è rinchiuso in un isolamento religioso dal quale sembra non voler più uscire. Inconsciamente St. John diventa protagonista, oltre che autore, della sua storia, vivendo sulla propria pelle l'esperienza della impossibilità di uscire dalla nostra situazione di dipendenza.

Passando rapidamente ad un'analisi tecnica, è evidente che "The addiction" è un film poverissimo. I controcampi sono depennati, le inquadrature sono semplici ed essenziali eppure efficaci. D'altronde è probabile che la struttura teatrale, fatta di monologhi e attori che recitano davanti alla camera fissa, sia dovuta al budget ridotto che non permetteva molti giorni di ripresa e montaggio. Anche la fotografia adottata (splendido il lavoro di Ken Kelsch) abbandona i giochi di luce di carattere fortemente espressionistico ricco di dominanti cromatiche di "King of NY" (in quell'occasione il direttore della fotografia era stato Bojan Bazelli) approdando ad un bianco e nero essenziale molto più vicino al noir che non a quello espressionista richiamato solo tramite il classico gioco di ombre (anche qui non è comprensibile come parte della critica abbia potuto confondere i due stili).
Infine una nota dolente per il terribile doppiaggio pieno di inesattezze sul testo, come troppo spesso accade. Ad esempio nella scena finale Kathleen abbandona il cimitero e la voce fuori campo recita che la redenzione avviene solo "tramite l'annullamento del sè", mentre l'esatta traduzione sarebbe "tramite l'annichilimento del sè", che nel contesto filmico, di nichilismo intriso, assume tutt'altro significato.

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Recensione a cura di fidelio.78 - aggiornata al 09/08/2007

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