Recensione l'intrepido regia di Gianni Amelio Italia 2013
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Recensione l'intrepido (2013)

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locandina del film L'INTREPIDO

Immagine tratta dal film L'INTREPIDO

Immagine tratta dal film L'INTREPIDO

Immagine tratta dal film L'INTREPIDO

Immagine tratta dal film L'INTREPIDO

Immagine tratta dal film L'INTREPIDO
 

"E' UN INNO ALLA DIGNITA' DELL'UOMO, LA STORIA DI UN PERSONAGGIO CANDIDO CHE FA UN MESTIERE CHE E' LA QUINTESSENZA DEL PRECARIATO ODIERNO"

Gianni Amelio crede nelle sue storie. E' un regista che fa del rigore formale la sua arma vincente. E colpisce spesso nel segno, grazie a un lirismo che accentua le emozioni senza svilire quasi mai forma e contenuto. Nessuno gli chiederà ogni volta di "colpire al cuore" (nonostante il suo penultimo film, ricco di immagini memorabili, sia passato del tutto inosservato) ma almeno di preservare la Poesia in qualcosa di diverso da una scontata miniatura. Strano, da un cinema che fa della contemporaneità il suo ingrediente principale (la crisi economica europea e soprattutto Italiana) il risultato del suo promettente "L'intrepido" è piuttosto anacronistico, tanto da costringerci a confutare i modelli alti del passato, da Visconti al De Sica-Zavattini di "Miracolo a Milano", da Chaplin a Luigi Zampa (ricordate "Anni facili"?).
Ed è come se noi stessi, sopraffatti da una crisi economica che perdura da anni, ci trovassimo in difficoltà a doverci identificare con il Totò di "Miracolo a Milano", o il pensionato di "Umberto D". Figuriamoci con la figura sorprendente e riconoscibile di Charlot o la comicità imbelle di Buster Keaton!

Il problema del film sta tutto nella figura di Antonio Pane, e guardacaso negli States il film sarà distribuito con un sottotitolo come "A LONELY HERO". Un prototipo del Povero Diavolo Italico, ma con il cuore di burro (la sacralità è fuori di dubbio laica come in tutto il cinema di Amelio), che dispensa consigli e si mostra disposto ad aiutare sempre il prossimo, neanche fossimo davanti alla classica frase usata a sproposito dal mondo cattolico "ama il prossimo tuo come te stesso". Ma siamo certi che Antonio Pane ami veramente se stesso, al di là del mondo che lo circonda? E' una società alla deriva, "nobilmente" cinica, atta allo sfruttamento e all'opportunismo più bieco, piena di avventori e imbroglioni, di manipolazioni burocratiche atte a falsificare la buona volontà e a renderla oltretutto mansueta e sottomessa ai piccoli e grandi abusi di potere.
Antonio viene ogni volta sfruttato, umiliato, sottomesso, deriso e lavora spesso senza un salario, è gentile, ingenuo, fatalista e remissivo, e dimostra sempre tanta buona volontà tutte le volte che gli viene chiesto di "rimpiazzare" qualcuno nei compiti più disparati (operaio, tramviere, corriere, venditore di scarpe, ambulante).

La figura dell'italiano remissivo visto con i toni della favola moderna, diciamoci la verità, non funziona. Non funziona l'adesione quasi empatica di Albanese (perchè la sua empatia col personaggio non è la stessa che NON troviamo noi spettatori), non funziona il suo edificante e inopportuno altruismo, come se fossimo ancora ancorati alle pagine e al lirismo di Pagnol o Renè Clair. Ma soprattutto è difficile voler bene a questo piccolo uomo che fallisce come figura paterna - del resto anche la figura del figlio Gabriele, musicista Jazz in preda ad attacchi di panico, è stilizzata pochissimo - e umana, perchè non riesce a dimostrare, che a se stesso, che esiste in fondo un'opportunità in un domani migliore.
Certamente questo Charlot perso in una Milano umida e indifferente come non mai non riesce a comprendere fino in fondo tutto il disordine e il disagio che lo attraversa, incapace al tempo stesso di capire quello degli altri (la figura di Lucia-Livia Rossi, conosciuta in un concorso pubblico).
La purezza morale dell'"uomo che sogna ad occhi aperti" poteva essere un'idea per una favola moderna, ma è certo che i referenti letterari del passato hanno dimostrato che si può e deve costruire una storia "leggera" senza necessariamente privarsi del peso del fardello sociale che raccoglie (dicono niente i nomi di Buzzati, o di Piero Chiara, caro Amelio?).
Noi vediamo Antonio in ogni luogo (abbia bisogno di Lui), capace di indignarsi soltanto quando il dolore lo porta a un drammatico confronto con la realtà, o magari quando scopre di essere stato ingannato e imbrogliato per l'ennesima volta (l'esilarante e insieme patetica sequenza del negozio di scarpe, per esempio).

"QUI MANCA LA SPERANZA CHE E' QUELLA PIU' IMPORTANTE"

E in definitiva, "L'intrepido" è un film non riuscito, ritratto quanto mai remissivo e reticente di una Crisi Economica che ha aspetti ben più inquietanti rispetto alla neutralità surreale di questo (anti)eroe sprovveduto e infaticabile.
Un caso anomalo, nel nome del Diritto al lavoro sancito dalla Costituzione e che Amelio difende ad ogni costo, a raccontarci l'opportunità della fatica fisica contro la condanna morale della condizione operativa. Albanese chiede sempre a tutti "come posso aiutarti?", a testa bassa e con il volto teso e preoccupato, e proprio per questo la sua tolleranza è falsa, costretta a fare i conti con la quotidiana manipolazione della vita di tutti i giorni.

Non volevamo certo un film disfattista, ma sottilmente graffiante sì, senza sentirci del tutto estranei a un personaggio come Antonio, che finisce per diventare involontariamente antipatico come la famiglia velleitaria e implacabile di "Sfida senza paura" di Paul Newman.
I dialoghi sono soprattutto verbosi e blandamente letterari (difetto non esente dal cinema di Amelio, ma che in precedenza era riuscito quantomeno ad equilibrare), la recitazione è altrettanto discutibile: diciamo onesto Albanese come personaggio, fuori contesto anche da se stesso, ma che deve supportare altri attori non all'altezza.
Soltanto il cameo di Alessandra Ceccarelli, nei panni dell'ex-moglie, restituisce un minimo di credibilità (...).

Tecnicamente il film, che si avvale della buona fotografia di Bigazzi e delle musiche di Franco Piersanti, funziona e purtroppo un paio di magnifiche sequenze "mancate" rendono l'idea di un progetto dalla sceneggiatura carente e semplicistica, che con qualche sfumatura in più e meno melassa, avrebbe potuto essere vincente.
Del resto, la Milano che sfugge ad ogni controllo emotivo, in balìa di avvenimenti in cui non si riconosce più, è purtroppo più credibile di quanto si possa pensare.

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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 13/09/2013 15.52.00

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