Recensione buried - sepolto regia di Rodrigo Cortés Spagna 2010
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Recensione buried - sepolto (2010)

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locandina del film BURIED - SEPOLTO

Immagine tratta dal film BURIED - SEPOLTO

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Immagine tratta dal film BURIED - SEPOLTO

Immagine tratta dal film BURIED - SEPOLTO
 

Svegliarsi e trovarsi avvolto dal buio e dal silenzio.
E' così che Paul Conroy scopre di essere stato segregato in una cassa di legno. Autotrasportatore americano, in Iraq per lavoro, si ritrova vittima di alcuni ribelli del posto che hanno intercettato e bombardato il suo convoglio. Ha con sé solo un accendino, una matita e un cellulare. Con questi tre oggetti cercherà di utilizzare il poco tempo e il poco ossigeno a disposizione per farsi trovare e salvarsi.

Girato in soli diciassette giorni con un budget abbastanza contenuto (tre milioni di dollari), "Buried" entra in scena con discrezione. La sceneggiatura di Chris Sparling girava a vuoto negli ambienti hollywoodiani, orfana di regista e produttori. La sfida era effettivamente ardua: portare sul grande schermo una storia di un solo attore in una sola scena.
Un salto nel buio, una giocata d'azzardo la cui vittoria era data 100 a 1; perché si sarebbe dovuto rischiare perdendo solo soldi e tempo? Hollywood non vuole novità e rischio, vuole soldi, successo e ancora soldi. Non è pensabile riuscire a rendere un buon film da una sceneggiatura così paradossalmente semplice eppure così impegnativa e dalla riuscita possibilmente noiosa e mediocre.
Eppure qualcuno ci ha creduto, perché alla fine il film è stato girato e prodotto da chi ha forse voglia di sperimentare. La giovane casa produttrice spagnola Versus Entertainment ha infatti accettato la sfida affidandone la realizzazione all'emergente regista Rodrigo Cortés, e ciò che ne è venuto fuori è un lavoro di ottima fattura, già preso di mira dalle assurde e ridicole pretese di Hollywood di fornire (ora) la sua versione.

Paragonabile a "Phone Booth" e "Open Water" per la scelta di svolgere l'intera vicenda in un'unica ambientazione, qui ci troviamo però in una circostanza ancora più ristretta e unica.
Smontiamo subito lo spettatore che si aspetta un film horror in cui una poco sveglia vittima si ritrova alle prese con un serial killer che sfoga le sue perverse pulsioni. Avvertiamo chi attende una versione prolungata dell'accattivante ma contestualizzata scena di "Kill Bill" dove Beatrix riesce a liberarsi dalla sepoltura in cui era stata imprigionata, che qui si tratta di tutt'altro.
Informiamo anche chi non regge all'idea di un'unica sola ambientazione, chi ha bisogno di azione, perché qui c'è distrazione e non c'è azione che ci conduca al di fuori della cassa di legno di Paul.
Non c'è niente di cui preoccuparsi invece per i claustrofobici, perché a dispetto di tutto, ciò che attirerà maggiormente l'attenzione non sarà quella soffocante prigione, ma piuttosto tutto ciò che avviene lì dentro. Sarà infatti l'ultimo dei problemi dello spettatore, preso completamente dalla ricerca del protagonista di salvarsi.

La validità di "Buried"come prodotto cinematografico credibile è affidata alla solidità di una regia asciutta e sicura che è un tutt'uno col montaggio, anch'esso curato da Cortés. La ristrettezza della location, studiata nelle inquadrature attraverso la costruzione di sette bare atte alla riuscita di un'alternanza di inquadrature e luci abbastanza numerose, mette in mostra l'efficienza della regia, la quale non si lascia sottomettere da questo limite. Cortés si dichiara ispirato al lavoro di Alfred Hitchcock per realizzare la sua idea di suspense, in cui "quando pensi che non possa succedere niente di peggio, questo accade". Questa regia, priva di tentennamenti e artifici, guida un inaspettatamente magistrale Ryan Reynolds, capace di rendere il suo personaggio realistico nella sua angoscia e nella sua plausibile sfiducia alternata alla speranza.
Paul è un personaggio fortemente catartico grazie a Reynolds, che è stato capace di colorarlo di misura ed equilibrio, tra isterismo e rassegnazione combattute con l'attaccamento alla vita. Non è affatto semplice rendere la disperazione di un uomo senza un cambio di scena, senza che ci si possa distrarre dalla sua figura, focalizzando unicamente ogni suo respiro e senza annoiare mai lo spettatore. Si arriva a conoscere profondamente la personalità di Paul, resa abilmente con dialoghi efficaci e atteggiamenti non esagerati. Anche il sarcasmo, divertente e d'effetto, non fa che marcare la bravura di Reynolds, che lo dosa pertinentemente alternandolo a panico e ansia.
La sceneggiatura è sicuramente il pilastro su cui hanno fondato le loro scelte il regista e l'attore. La coordinazione e la cooperazione sono evidentemente riuscite, poiché i tre ruoli puntano alla semplice chiarezza della storia. L'originalità e la semplicità intrinseche alla trama sono però scandite da interessanti critiche alla società e tematiche che vanno ben oltre la sepoltura del protagonista.

Si invita chi ancora non avesse visto il film a non proseguire con la lettura della recensione che analizzerà i passaggi salienti e i momenti finali.

Ciò che accoglie inizialmente l'occhio dello spettatore è il buio totale: tre minuti di completo isolamento. Il silenzio diviene altrettanto importante in questa insolita apertura di sipario, creando una cornice di realismo. Ed è quest'ultimo il primo ad essere infranto dalla voce di Paul, che lentamente si risveglia dal suo ultimo ricordo, catapultato in ciò che diverrà il suo infernale rifugio per i prossimi novanta minuti.
In un climax di angoscia, si attraversano le diverse fasi della realizzazione della propria impotenza, chiave fondamentale di lettura del protagonista, in cui diventano di ossessiva importanza i particolari. La mancanza di una qualsiasi digressione, ambientale, dialettica o sensoriale determina una marcata presenza del dettaglio. Partendo da quelli più visibili, ovvero gli oggetti che Paul trova nella cassa, si arriva all'ossessione della variazione del primo piano, che è sì d'obbligo, ma non appare scontato, per il taglio e la variazione che subisce nel corso del film; come pure per le luci, che cambiano a secondo dell'oggetto che le emana. Il tutto ha il pregio di rendere l'andamento della storia meno monotono nonostante l'unica scena e l'unico attore.

Gli oggetti sono i meccanismi che mettono in moto tutto l'ingranaggio. Senza di essi la condanna del protagonista sarebbe scritta fin dall'inizio, perché privo di ogni appiglio alla realtà e perché sprovvisto di una qualsiasi speranza che lo possa convincere a non desistere.
L'accendino appare decisamente interessante sotto molti punti di vista. E' innanzitutto ciò che consente inizialmente a Paul di vedere e comprendere la sua condizione. L'unica luce che possa insieme agitarlo e calmarlo. Questo perché il buio è fautore, nella natura umana, di una reazione primordiale e irrazionale che, quando scatta, diviene impossibile da controllare. In seconda analisi l'accendino è ciò che ci consente di osservare ciò che avviene all'interno della cassa. La presenza di tale oggetto ha generato molti interrogativi e molti dubbi relativamente alla verosimiglianza della situazione ricreata. Com'è possibile infatti che il protagonista accenda continuamente lo Zippo nonostante sia conscio, come lo spettatore, di avere poco ossigeno a disposizione e che quella fiamma lo stia consumando al suo posto?
E' questa un'incongruenza che il regista ha spiegato con la volontà esplicita di non dare troppo peso all'esatta tempistica di ossigeno e anidride carbonica, per concentrarsi del tutto sul realismo emozionale che deve invece avere risalto nell'opera.
Si può pensare che avrebbe potuto utilizzare esclusivamente la piccola torcia e il neon che compaiono nel secondo atto, ma probabilmente avrebbe perso un importante catalizzatore di angoscia, il già citato consumo d'ossigeno, e quella gestualità catartica che è racchiusa nell'accendere, a volte senza successo, la fiamma. Possono sembrare banalità, ma nell'economia generale della percezione visiva assumono un peso non indifferente e che scavalca il bisogno di attenersi ai tempi effettivi.

La matita è concettualmente legata all'altro oggetto, elemento di vitale importanza per il protagonista: il cellulare. Con la prima Paul scrive i numeri di telefono che riceve man mano che chiama. Il secondo è l'unico punto di contatto con l'esterno, l'unico vero barlume di speranza a cui ci si possa aggrappare. Con il cellulare Paul può chiamare i soccorsi e rimane in contatto con il suo sequestratore. Inoltre è grazie al cellulare che noi riusciamo a capire dove si trova Paul e a conoscere gradualmente la sua vita e il suo carattere. E', insomma, l'espediente narrativo su cui viene fatta ruotare tutta la storia, senza il quale sarebbe impossibile dare spessore oppure originalità a una situazione che sembra essere altrimenti concepibile solo come un'istantanea del concetto di claustrofobia.

Dopo una prima scarica di panico e disperazione, Paul si attiva per uscire vivo dalla cassa usando quindi il cellulare, la cui trasmissione e ricezione sono perfettamente attive. Questa condizione è resa plausibile dal suo essere un solo metro sotto terra.
E da qui la storia prende velocità per trasformarsi in una fornace di stati d'animo in cui siamo intrappolati anche noi, osservatori passivi. Mentre la prima parte del film avanza scandita solo dall'affanno e dall'analisi della bara, in ogni centimetro e in ogni angolazione, dopo una prima sperimentazione del cellulare la situazione sembra cambiare e il ritmo si fa più accelerato, concedendo alla curiosità del pubblico di essere ripagata, se prima era invece più indotta alla noia.
Il cellulare diviene anche il mezzo con cui la sceneggiatura mette in atto una critica e una sottolettura decisamente più profonda di quanto era apparso all'inizio.
Nella drammatica corsa alla sopravvivenza di Paul si presentano degli ostacoli la cui natura non nasce solo dalla posizione in cui si trova, quanto dai limiti che la burocrazia gli impone nonostante la terribile avversità. L'angoscia e la fretta di Paul inciampano continuamente su segreterie telefoniche, attese e domande legate a una routine professionale che sfocia nell'automatico.
Si avverte l'esasperazione del paradosso burocratico, che non cede neanche di fronte alla morte imminente. E se parte con le prevedibili segreterie e attese musicali, esplode poi con le menzogne costruite a tavolino da chi lavora nel settore crisi e ostaggi, fino alla costrizione registrata del proprio licenziamento con tanto di negazione di ogni responsabilità della ditta di trasporti che lo aveva assunto.

E' questa un'amara e pungente critica ad una società che si è accecata da sola, rendendo "la prassi" più importante della vita stessa. Le chiamate a vuoto e le domande standard a cui Paul è costretto a rispondere ci pongono davanti ad una realtà che purtroppo è vicina e che è riuscita ad oggi a mettere la funzionalità e la produttività prima del singolo, prima di quell'individuo che fa parte della catena di montaggio. Un uomo è quindi solamente un numero, produttivo finché fa parte di un meccanismo che lo inglobi, e una seccatura da sbolognare una volta che ne è fuori. Paul non è importante per la società né come lavoratore né come essere umano, ed è quindi abbandonato a se stesso.
La tecnologia, tanto utile e tanto osannata, non gli viene per niente in aiuto. E' piuttosto costretto ad assistere "in diretta" alla disfatta della sua dignità di uomo e alla fine della sua vita. Illuso costantemente, nonostante la sua razionalità comprenda benissimo l'andamento delle cose, da quel cellulare che gli permette di comunicare con il mondo, constata il disinteresse del suo paese che fa ribalzare la sua richiesta d'aiuto di numero in numero; della ditta che lo ha assunto, che addirittura lo licenzia e si slega da ogni responsabilità che lo ha condotto in quella situazione, perché "ancora vivo" nel momento del licenziamento; infine anche di sua moglie, che non riesce a rintracciare se non quando il suo tempo sta per terminare, totalmente ignara della gravità della situazione.

L'impotenza del singolo sembra tale soprattutto in relazione all'abbandono della comunità che non gli permette nemmeno di spiegare la sua situazione, perché va oltre il tempo e la pazienza di un mondo che è ormai fatto di meccanismi e ingranaggi automatici, siano essi viventi o meno.
Diventa più importante che la sua condizione non finisca sotto le grinfie dei media piuttosto che lui non muoia. Viene continuamente ripetuto a Paul di non contattare i media, che non metta in risalto la sua circostanza, poiché sarebbe quella la vera tragedia. Quindi Paul esisterebbe solo se ci fossero i media a testimoniarlo, altrimenti non avrebbe più peso di una granello di sabbia. Il responsabile delle risorse umane della sua ditta gli chiede, con una certa agitazione, se egli sia riuscito a contattare i media, perché l'importante è "contenere il problema", frase su cui Paul stesso fa del sarcasmo vista la costrizione della sua condizione.

La società occidentale, evoluta e rispettosa dei diritti fondamentali umani, viene fuori più abietta e distaccata di quel sequestratore che sembra più affidabile e decisamente più sincero. Paul fino all'ultimo si affida alla sua clemenza e alla sua "lealtà" per uscire vivo dalla trappola che quello gli ha teso. Il suo carnefice non è uno psicopatico sadico e nemmeno un terrorista.
"Sono un terrorista solo perché ti terrorizzo?"
Quest'ultimo si racconta alla sua vittima solo come un uomo, un iracheno che ha perso la sua famiglia, la cui disperazione lo porta a dover chiedere un riscatto per una qualsiasi vita americana.
"Tu sei americano? Allora sei soldato"
E' questo il sillogismo che porta l'iracheno a seviziare il protagonista. La guerra e l'invasione americana ha portato agli iracheni la sola colpa di trovarsi a casa loro. L'iracheno rammenta questo, ricorda come per l'11 Settembre, per Saddam Hussein, lui, semplice uomo, ha dovuto pagare con la vita dei suoi familiari e con l'obbligo di non aver niente da perdere per sopravvivere.
D'altronde Paul stesso non ha colpe. Lui non è un militare, non è andato in Iraq per fare il mercenario in una guerra ancora oggi ambigua. Paul è un semplice trasportatore che ha accettato il lavoro solo per mantenere la propria famiglia e non si stanca mai di ripeterlo. Uguale a lui è il suo aguzzino, che ha perso quattro dei suoi cinque figli senza che avesse colpa alcuna.

La catarsi è tutta per un uomo, Paul, la cui vita non è stata votata all'arma e in cui tutti possono riconoscersi. Al giorno d'oggi sono in molti a rifiutare l'eroismo dei soldati, condannandone invece la posizione di forza nei confronti di civili che si ritrovano solo nella nazione debole sbagliata. Se Paul fosse stato un militare, non sarebbe risultato altrettanto inerme e innocente come invece appare.
Questo risulta essere il primo punto di una critica aspra che colpisce l'invasione americana in Iraq, nelle vesti soprattutto dell'ambiguo capo della Sezione Crisi per i Prigionieri in Iraq, che Paul inquadra immediatamente come qualcuno di cui non fidarsi. Come già detto, la razionalità del protagonista, insieme a quella dello spettatore più acuto, sa già che qualcosa non quadra nella sicura voce del professionista che ha visto decine di situazioni come quella di Paul. E lui infatti appare molto più sinistro dello stesso sequestratore, perché continua ad essere fonte di speranze e illusioni che martellano il protagonista fino alla fine.
Quando Paul pensa che il sequestratore sia morto perde ogni illusione sul suo ritrovamento, ma risentendolo rimane sollevato come che debba essere lui il suo salvatore e si fida anche quando questi gli ordina di tagliarsi il dito e registrare tutto con un video, perché riesce a credere più allo sconosciuto e disperato aguzzino che non ai suoi presunti soccorritori.

La situazione è quindi completamente capovolta quando si arriva allo scadere del tempo e dell'ossigeno di Paul, continuamente in bilico tra la disfatta e la vittoria.
Un'illusione si cela dietro un'altra finché tutto appare come doveva essere fin dall'inizio: la cronaca di una morte annunciata. Tutto il film è un lungo e soffocante epilogo, di cui ci sembra di aver visto le scene precedenti dalle parole di Paul, e ciò che può accadere è solo legato alla sua morte.
Due amare illusioni coronano la fine di Paul. La prima è legata all'allucinazione di vedere la cassa finalmente aperta, ed è un momento in cui tutto il pubblico è portato a crederlo con lui. La seconda è messa in moto dalla chiamata al capo della Sessione di Crisi che gli comunica di averlo trovato per poi dirgli che, nel cercare lui, è stato trovato il cadavere di Mark White. La potenza di questa illusione è tale da sgretolare non solo ogni speranza di uscire vivo dalla sua trappola ma anche di aver smascherato la bugia su cui Paul aveva costruito l'ultima ora di vita.
Il responsabile della Sessione Crisi aveva detto infatti di essere riuscito a salvare Mark White, vittima della stessa modalità di sequestro di Paul. La bugia aumenta esponenzialmente la tragicità della morte di Paul, a cui lui pareva aver quasi rinunciato, ma che è costretto invece ad accettare una volta che ogni finzione è crollata davanti ai suoi occhi, anche davanti a quella bara che è ormai distrutta e completamente penetrata dalla sabbia.
Paul si attacca alla vita fino all'ultimo secondo della sua esistenza perché è l'istinto che anima la nostra indole; allo stesso modo il pubblico fino all'ultimo si conforta con la speranza del lieto fine che pensa che sicuramente arriverà. Ma la credibilità di questo lavoro vive anche di questo: dell'ultima, più importante speranza che viene disattesa e che è appunto quella del pubblico.

Non si può credere che ci si debba ancora aspettare da una storia, sia su carta stampata o su pellicola, che essa termini per forza con un lieto fine. La prevedibilità e la banalità, è vero, sono un fattore di sicuro successo o non successo, ma considerare il lieto fine come unico possibile è un preconcetto che si accetta solo da un pubblico pigro.
Dovrebbe anzi essere ammirabile come si difendano una o più tematiche dall'inizio fino alla fine. "Buried" è già un epilogo, se considerato interamente, e cosa diverrebbe se Paul si salvasse? Solo una semplice banalità, forse anche già vista.
Sta all'intelligenza del fruitore decidere cosa ricevere da un film di questo genere: l'analisi di una società che emerge dall'impotenza di un uomo chiuso in una cassa in un deserto o la delusione per un finale edulcorato ma che si pensava garantito.

A prescindere da quello che è poi gusto personale, c'è da rilevare l'assoluta difficoltà di rendere efficace una storia che in novanta minuti deve svolgersi esclusivamente in una bara.
Si deve far forza sull'emotività e sull'ansia di chi guarda, trasportato possibilmente da un'empatia che non deve ammettere distrazioni e assorbire il crescendo di disperazione e la consapevolezza che il tempo e l'ossigeno di Paul stanno per terminare. I limiti sono la sua stessa forza ed è comprensibile che il film sia adatto solo allo spettatore che voglia concentrarsi per entrare veramente nella storia, e in questo caso nella bara.

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Recensione a cura di ele*noir - aggiornata al 19/10/2010 11.46.00

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