Recensione state of play regia di Kevin Macdonald USA 2009
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Recensione state of play (2009)

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locandina del film STATE OF PLAY

Immagine tratta dal film STATE OF PLAY

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Visto così, ad una lettura un po' superficiale, "State of play"può sembrare un normale political/thriller, debitore dei grandi classici degli anni '70 sia del filone del giornalismo investigativo, come "Tutti gli uomini del Presidente" e "Perché un assassino", di Alan J. Pakula (il primo sullo scandalo Watergate e il secondo sull'uccisione di un Presidente americano), che dei thriller innovativi, come "I tre giorni del condor", di Sydney Pollack, sui settori deviati della CIA; e invece l'ultimo film di Kevin Macdonald è un thriller che pur rispettando i canoni dello specifico cinematografico si dimostra un film fortemente democratico, che sa rappresentare in modo perfetto la profonda sfiducia di un paese, privato di certezze e intimorito dalle nubi che sembrano addensarsi sul suo futuro.

Un film che recupera umori e atmosfere del rapporto, da sempre esistente, tra giornalismo e potere e tra giornalismo politico ed etica all'interno del suo mondo: un'etica sempre più asservita al capitale, alla politica e alle lobby industriali.

Un film che solo i Paesi in cui il giornalismo è veramente libero, indipendente e intellettualmente onesto sanno e possono fare: Paesi dove le inchieste si fanno anche se sono scomode o anche se invitano alla vigilanza democratica, e in cui i giornalisti che le fanno non vengono accusati di "remare contro gli interessi del Paese" o di fare gli interessi degli avversari politici; Paesi in cui non ci sono "editti bulgari" e minacce di epurazioni (come spesso accade nel nostro Paese, in cui le inchieste si fanno a cose già accadute e solo se non dispiacciono al potere).

Un giornalismo che anticipa la polizia e fa del diritto di cronaca un dovere di cronaca, pronto a cercare la verità ovunque e comunque, anche quando la verità tocca i sentimenti o risulta sgradita al "palazzo", perchè la cronaca è narrazione di fatti rivolta alla collettività e quindi la sua funzione è quella di informare, finendo per prevalere sul diritto del singolo individuo, anche se “inviolabile”, e perché "i veri giornalisti" (quelli che Giancarlo Siani chiamava giornalisti-giornalisti, per distinguerli dai giornalisti-impiegati) "non hanno amici, ma solo fonti".

Di quell'eterno conflitto tra dovere di cronaca e scoop da prima pagina, Kevin Macdonald recupera le atmosfere cupe e inquietanti dei complotti politici, dei quali, quando si pensa di essere arrivati alla verità, poi si scopre che quella verità ne nasconde un'altra e poi un'altra ancora, come un gioco ad incastro racchiuso dentro una scatola cinese.

Il giornalistra che crede ancora nel suo mestiere e fiuta le notizie con l'incredibile capacità che gli deriva dagli anni passati sul campo a rincorrere le notizie, convinto che i lettori sappiano discernere tra notizie vere e verità prefabbricate, è il cronista del Washington Globe (in cui non si fa fatica a riconoscere quel Washington Post di Bob Woodward e Carl Bernstein e dello scandalo Watergate), Cal McAffrey, interpretato dal premio Oscar, Russel Crowe, straordinariamento sfatto e imbolsito dai troppi whisky trangugiati in fretta.
Non un eroe ma un "cronista" pieno di vizi, non scevro da errori, ma cocciuto e determinato a portare fino in fondo le sue inchieste, anche se scottanti; testardo e scorbutico, burbero e ostinato, ma anche onesto e umano, sia nel bene che nel male, McAffrey rappresenta il prototipo di una generazione di giornalisti vecchio stampo, di quelli che stanno più per la strada a fiutare le notizie che dietro ad una scrivania, incollati al pc, in attesa dello scoop da sbattere in prima pagina.

Sovrappeso, trasandato nel vestire, capelli lunghi ed eternamente unti, barba incolta, una vita da sempre incasinata e un amore mai del tutto vissuto pienamente, fin dai tempi della scuola, per la moglie del suo migliore amico, Stephen Collins, che ora fa il politico e ambisce, con una certa prospettiva di sicurezza, a diventare Presidente.

Giovane e ambizioso, belloccio quanta basta, Collins è presidente della commissione incaricata di supervisionare le spese per la difesa nazionale e dei finanziamenti per la ricostruzione dell'Afganistan e dell'Iraq, che oggi sono affidati a contractors privati, così come le spese per sicurezza interna e i servizi di intelligence dell'FBI.
Proprio mentre è impegnato con la commissione in una indagine sull'operato di una di queste società private, la PointCorp, formata da ex militari, che con metodi assolutamente illeciti e con profitti stratosferici combattono i terroristi in quei paesi, che potrebbe compromettere i loro illeciti profitti dell'ordine di milioni di dollari, Collins viene coinvolto, suo malgrado, in una storia di efferati omicidi che lo coinvolgono in prima persona, quando si scopre che una delle vittime (rimasta uccisa in un misterioso "incidente" in metropolitana) è la sua bella e giovane stagista, nonchè sua amante.
Il clamore che ne segue perde ben presto i connotati dello scandalo a sfondo sessuale, che tutti i media gli avevano assegnato, per rivelarsi, nelle indagini di McAffrey, molto più complesso ed enigmatico, con molti lati oscuri ed impenetrabili.

Disperato e ormai certo di essere sull'orlo di un precipizio mediatico, che inevitabilmente comprometterà la sua carriera e le sue ambizioni politiche, Collins si rivolge, allora, al suo vecchio compagno di college, affinché lo aiuti a venirne fuori e recuperare la sua onorabilità.
McAffrey, logorato dai sensi di colpa nei confronti del suo amico, per la vecchia storia con sua moglie, comincia ad investigare, affiancato dalla giovane ed ambiziosa Della Frye, blogger in carriera del quotidiano, che il direttore del giornale, una donna senza scrupoli gli ha messo accanto, costringendolo a collaborare col lei, per cercare di dimostrare l'innocenza del suo amico, anche se egli innocente non è, trasgredendo così,per la prima volta, le norme dell'etica professionale.
Dopo un primo momento di insofferenza reciproca, uniranno le loro forze e insieme scopriranno una serie di verità, in cui tutti hanno qualcosa da nascondere, opportunamente insabbiate sotto un cumulo di dollari, che rischiano di ridurre in pezzi la struttura politico/economica del paese e soprattutto si renderanno conto che ogni verità ha un costo umano che spesso travalica le stesse intenzioni degli investigatori.

Kevin McDonald, che ha firmato la regia dell'interessante "L'ultimo re di Scozia", biopic sul dittatore ugandese Idi Amin, e ha vinto un Oscar con il cortometraggio "One Day in September", sul tragico attentato alle Olimpiadi di Monaco, dirige in thriller credibile e appassionante, basato sulla popolare miniserie Tv della Bbc dal titolo omonimo, in cui si confrontano (e si scontrano) due modi e due mondi diversi e speculari di fare giornalismo, il mondo della carta stampata, in crisi irreversibile, e l'universo convulso dei blog e delle news, sempre pronto a premere il tasto di invio pur di arrivare primo nel lancio della notizia, anche a discapito della verità e della correttezza.

"State of Play" è anche un flim che cerca di svelare il volto marcio della politica, troppo spesso impantanata e imparentata con storie di spie e traditori, di complotti e corruzione, con deputati e senatori coinvolti in scandali a sfondo sessuale o economici.

Certo, "State of Play" appartiene a quel genere di film decisamente non facili, con una trama elaborata e a tratti complicata, con un finale nebuloso, che non spiega fino in fondo l'intreccio narrativo e che può risulatare stancante e difficie da seguire per lo spettatore medio.
Ma l'abilità di Kevin Macdonald nel mantenere costantemente vigile l'attenzione degli spettatori, giocando con i colpi di scena e con il ritmo classico dei film d'azione, sopperisce a tutto ciò, rendendo il film, nonostante la complessità dell'argomento, avvincente e da seguire col fiato sospeso per il divenire continuo di una vicenda ricca di sfumature e in costante sviluppo narrativo, tra verità e apparenza e continui colpi di scena.

Nel cast spiccano, oltre al citato e grandissimo Russel Crowe, una serie di personaggi interessanti e disegnati con eccezionale efficacia, a cominciare da un ottimo Ben Affleck, finalmente convincente e misurato, la cui monoespressione, che altre volte ha limitato le sue performance, qui si presta veramente bene al suo personaggio di giovane ambiguo e ambizioso deputato del Congresso americano che vuol far carriera nella politica, ma che a causa di una una vita privata non sempre ineccepibile finirà per trovarsi coinvolto in un affare più grande di lui.

Sempre eccezionalmente perfetta il premio Oscar Helen Mirren nei panni dello spietato e potente redattore capo del Washingthon Globe, una donna interessata al profitto e tutta tesa a coniugare qualità dell'informazione e necessità di vendere, esigente coi suoi collaboratori ma sempre pronta a riconoscere la loro professionalità.

Rachel McAdams è la giovane blogger Della Frye, una ragazza volitiva e intraprendente che ha voglia di emergere e avere successo nella carriera, che riuscirà a far breccia, dal punto di vista professionale, nel cuore di McAffrey che non si tirerà indietro quando si tratterà di aiutare e insegnare il mestiere alla sua giovane collega.
Robin Wright Penn, forse un po' troppo sotto utilizzata, riesce a conferire benissimo espressività e dolenza alla moglie infelice e tradita di Collins, che per il bene della carriera di suo marito accetta l'umiliazione e si schiera al suo fianco.
Completano il cast Jason Bateman, nel ruolo del manipolatore PR Dominic Foy, e Jeff Daniel in quello del machiavellico senatore e mentore di Collins.

Ispirato allo scandalo reale Blackwater (la compagnia privata accusata di abusi mentre svolgeva compiti di sicurezza per il governo USA in Iraq) e impostato su due temi specifici - la questione politica (privatizzazione di molti servizi e funzioni, dall'intelligence alla difesa negli Stati Uniti e alla conduzione della guerra in molte zone calde del mondo) e la crisi del giornalismo (vissuto dagli editori, costretti a ricorrere al gossip per vendere e far soldi, a discapito della verità)- il film sposta l'azione dall'originale Inghilterra della serie nel cuore del potere americano, Washington D.C., e rappresenta un omaggio di Kevin Macdonald al giornalismo vecchio stile; una professione, secondo il regista, in via di estinzione e oggi minacciata da internet e corrotta dalla politica, che proprio su questa debolezza basa il suo potere e la sua fortuna (tutte cose che noi conosciamo benissimo).

Ma al di là delle facili letture e dei continui colpi di scena, l'ultimo articolo, quello battuto dalle rotative, quello che scorre coi titoli di coda ci dice che, anche se l'imparzialità dell'informazione è un mito, il giornalista, quello vero, può commettere molti errori, ma alla fine "fa sempre la cosa giusta".

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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 04/05/2009

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