Recensione m, il mostro di dusseldorf regia di Fritz Lang Germania 1931
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Recensione m, il mostro di dusseldorf (1931)

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locandina del film M, IL MOSTRO DI DUSSELDORF

Immagine tratta dal film M, IL MOSTRO DI DUSSELDORF

Immagine tratta dal film M, IL MOSTRO DI DUSSELDORF

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Immagine tratta dal film M, IL MOSTRO DI DUSSELDORF

Immagine tratta dal film M, IL MOSTRO DI DUSSELDORF
 

"Ero stufo marcio, sai, di film enormi come "Metropolis" e così via. Volevo fare un film personale che avesse a che fare con un essere umano, con un male sociale. Così feci M"
Da un'intervista a Fritz Lang del 1975

Nel 1931 la Germania è lo scenario di bruschi cambiamenti sociali che sconvolgeranno l'intero assetto europeo. L'instabilità politica, il gravissimo stallo economico e un clima da guerra civile stanno portando la Repubblica di Weimar alla disfatta. Nel frattempo il Partito Nazionalsocialista di Hitler ottiene sempre più consensi. In questo marasma generale Fritz Lang, peraltro d'origini ebraiche, vive d'inquietudine e di terrore premonitore. Se non bastasse, l'ultimo capolavoro, "Metropolis", era stato un insuccesso di critica e un flop commerciale clamoroso, tale da trascinare il regista in una sofferta crisi artistica. L'idea di un nuovo film lo coglie inaspettatamente, se è vero che gli viene fornita da un articolo che riguarda Peter Kurten, un pedofilo serial killer conosciuto come "Il vampiro di Düsseldorf". Lang e sua moglie Thea von Harbou, con la quale scriverà lo script, compiono numerose ricerche sui delitti a sfondo sessuale, visitando manicomi, prigioni, stazioni di polizia. Quel che convince definitivamente il regista a realizzare la pellicola è la totale libertà espressiva che gli promette la casa di produzione cinematografica "Nero-Film". "M - Eine Stadt sucht einen Mörder" ("Una città cerca un assassino") rappresenta l'unica occasione, nella carriera di Lang, di avere il pieno controllo su sceneggiatura e montaggio. Ciò nonostante il film non avrà facile distribuzione né in Germania né nel resto del mondo (in Italia uscirà solo nel 1960 col titolo "M-Il mostro di Düsseldorf").
Le riprese ad ogni modo iniziano con buone premesse e durano appena sei settimane, concludendosi a marzo. Curiosamente Kurten verrà processato e condannato a morte appena un mese dopo.

La storia è ambientata a Berlino, dove ormai da tempo piccole vittime vengono uccise barbaramente. Le indagini sono assegnate all'ispettore Lohmann. I controlli a tappeto della polizia finiscono per guastare gli affari illegali della città, tanto che il potente boss Schranker, ricercato per triplice omicidio, decide di scovare egli stesso l'infanticida, avvalendosi dell'aiuto delle bande criminali e dei mendicanti della città. Le ricerche proseguono da ambo le parti e imboccano quasi contemporaneamente la pista giusta. Tradito dal motivetto che è solito fischiettare, l'assassino viene riconosciuto da un venditore cieco di palloncini e marchiato con una "M" (sta per Mörder) in gesso sulla giacca. Catturato dalla squadriglia di Schranker e portato in una vecchia distilleria, l'omicida chiede d'essere processato in un tribunale, ma la folla presente vuole eliminarlo. La polizia arriva appena in tempo per evitare il linciaggio.

Un'opera sovversiva

"M" è una pellicola destrutturante e rivoluzionaria sotto molti aspetti. Innanzitutto è l'inaugurazione del sonoro da parte di Lang, che seppellisce ogni traccia nostalgica del muto celebrando la nuova tecnica con sorprendente avanguardismo. Si pensi all'inquietante tiritera dell'uomo nero cantata da un gruppo di bambini nella scena d'apertura, all'innovativa voce fuori campo, all'inconfondibile zufolare dell'assassino, unico elemento musicale presente nel film. Tratto da "Nella sala del re della Montagna" del musicista Edvard Grieg, il leitmotiv fu una trovata formidabile del regista, che ebbe a dire a tal proposito:
"Il pezzo musicale di Grieg è stato usato troppo spesso nel cinema muto come musica di sottofondo, come ad esempio in "La nascita di una nazione"; qui funziona molto più che come una glorificazione dell'Agitato: insieme con l'annuncio dell'omicida e la cupa reiterazione della minaccia, si riferisce al carattere istintuale e ancora infantile dell'assassino."

Sebbene "M" sia considerato un capolavoro espressionista, alcune intuizioni registiche fanno presupporre la volontà di realizzare una commistione delle più importanti correnti artistiche tedesche, apparentemente inconciliabili fra loro. L'uso del chiaroscuro e delle ombre per la resa dell'inquietudine, la caratterizzazione emotiva dei personaggi e la recitazione enfatica e corporale di Peter Lorre, interprete dell'omicida, sono tipici dell'Espressionismo. L'impiego insistito del montaggio alternato, funzionale al racconto delle indagini simultanee della polizia e dei fuorilegge, unito al rigetto categorico di artifici a vantaggio di una visione disincantata, cinica, documentaristica, sono probabilmente legati al magistero della "Neue Sachlichkeit" ("Nuova oggettività"). Il rifiuto delle scenografie fittizie e la scelta di un'ambientazione tangibile come la città di Berlino, l'utilizzo del dettaglio e la mobilità della macchina da presa, testimoniano un approccio filmico profondamente realistico, tipico del Kammerspiel (letteralmente "Gioco da camera", in senso ampio "Gioco per pochi intimi"). Il movimento implicava fra l'altro un puntuale svisceramento psicologico dei personaggi, individui ordinari immortalati nella loro dimensione quotidiana. In effetti il Mörder di Lang, per quanto sia un paradigma dell'alienazione, esattamente come il sonnambulo di Wiene e il vampiro Nosferatu di Marnau, non è come loro un mostro artificiale, non ha fattezze innaturali né movenze epilettiche, al contrario è un uomo di sconcertante banalità, un cittadino qualunque.

Violenza e paure

"Credo che la violenza sia diventata un punto fermo di una sceneggiatura, ed è presente per una ragione drammaturgica. Non penso che la gente creda al diavolo con le corna e la coda biforcuta, e quindi non crede alla punizione dopo la morte. Allora mi sono chiesto a cosa crede la gente, o meglio di che cosa abbia paura: del dolore fisico, e il dolore fisico si sprigiona dalla violenza, è questa credo l'unica cosa che la gente realmente teme al giorno d'oggi, e che quindi è diventata una parte ben definita della vita e ovviamente anche della sceneggiatura"
Da un'intervista a Fritz Lang riportata in "Un viaggio nel cinema americano" di Martin Scorsese

Una bambina fa rimbalzare la sua palla sul manifesto che rende pubblica la ricompensa per chi catturerà l'assassino. All'improvviso vi si riflette un'ombra: è la prima celeberrima comparsa del Mörder. Un'inquadratura di straordinaria suspense che dimostra la propensione di Lang verso il thriller, il poliziesco e il noir, generi che gli permettono di toccare il nerbo più scoperto della mente umana: l'ancestrale fobia del sopruso fisico. Inscenare l'efferatezza di cui è capace l'uomo significa perpetrarla a propria volta, nella forma tollerabile della suggestione cinematografica. Ma naturalmente era inimmaginabile una rappresentazione esplicita di quel tipo di violenza, che viene restituita sullo schermo attraverso espedienti registici ed interpretativi. In questo modo l'immaginazione dello spettatore assume un ruolo fondamentale. Degna di rilievo la scena in cui l'omicida intravede su una vetrina, non a caso simbolo dei desideri materiali, una ragazzina che gironzola in strada. I coltelli esposti nel negozio creano una cornice grottesca intorno all'immagine riflessa della piccola, mentre il volto di Lorre è deformato da un eccitamento insolito, evidente preannuncio del raptus. Da notare anche la crudezza allusa del linguaggio. "I bambini spariscono senza lasciar traccia e quando li troviamo... sappiamo già in quali condizioni li troviamo" sospira un collaboratore della polizia.

In "M" il crimine viene spogliato della componente ammaliante ed elitaria che aveva nei gangster movies. Artefice del crimine può essere chiunque, incluso l'uomo insulso e basso-borghese. Nel corso delle indagini si afferma addirittura che "sono gli istinti del momento che fanno l'assassino". La visione del male come morbo invisibile e tentacolare ha uno strabiliante effetto trasversale sullo spettatore, costretto a immedesimarsi non solo con la vittima, ma anche con l'omicida. Il che non significa provare empatia per il personaggio, ma subire inconsapevolmente il riverbero delle sue afflizioni, della sua smania patologica di rompere l'anonimato esistenziale.

Forte denuncia sociale, sottile accusa politica

Nell'inferno tutto terreno ed antropizzato descritto da Lang, la debolezza individuale, quale può essere la malattia psichica, diviene l'alibi pretestuoso di un morbo sociale. L'isteria collettiva tanto per cominciare. In una scena del film, peraltro piuttosto ironica, un docile vecchietto viene accusato d'essere il "mostro" da un armadio d'uomo, subito sostenuto dai passanti del momento. La paura martellante esternata dalla popolazione sembra dovuta, oltre che alla serie di delitti, alla consapevolezza che il sistema di sicurezza è inefficace. Sebbene la polizia riesca a scoprire l'identità dell'assassino grazie a Lohmann, nessuno si preoccupa di incentivare la vigilanza per le strade. Paradossalmente sono i mendicanti guidati da Schranker ad organizzarsi in modo da non perdere di vista le bambine della città, salvandone addirittura una. Qui la denuncia sociale sembra assumere una valenza politica, profilandosi come atto d'accusa all'impassibilità generale di fronte all'allarmante imporsi del partito nazista. Nella conclusione la madre di una delle piccole vittime pronuncia una frase di respiro simbolico: "Bisogna vigilare meglio sui nostri figli".

"Il Signore impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l'avesse incontrato"
Genesi 4,15

Nel Libro della Genesi si racconta di come Caino, dopo aver ucciso Abele, fosse stato "marchiato" da Dio per evitare che lo linciassero. Nel film il segno della M ha un significato del tutto speculare. Oltre ad identificare il maniaco, funge da prodromo di quello che è, drammaturgicamente parlando, il momento più intenso della storia, cioè la parte finale. Fra la richiesta a gran voce della pena di morte e il tentativo di linciaggio, è la vera Spannung del cinismo di Lang. Il tribunale fittizio che viene a crearsi nella distilleria abbandonata è l'apoteosi del paradosso e dell'ambiguità. Da una parte il Mörder, difeso da un avvocato molto risoluto, unica figura positiva, che tuttavia è palesemente impotente di fronte alla furia della folla. Dall'altra l'accusa, una schiera di criminali d'ogni sorta, capeggiata da Schranker. Da ricordare le parole che quest'ultimo aveva pronunciato prima della caccia all'uomo: "Tra colui che la polizia cerca e noi facciamo una netta distinzione: noi esercitiamo una professione perché dobbiamo continuare a vivere, ma questo mostro non ha diritto di esistere, quindi bisogna eliminarlo, estirparlo, senza indugio e senza pietà!"
Sebbene l'omicida venga consegnato alla polizia e processato in un tribunale, la Weltanschauung del film non viene minimamente intaccata nel suo inflessibile realismo. Il nichilismo di Lang è di fatto passivo, è un'implosione che non lascia spazio a proposte risolutive né a tracce di speranza. Il regista è un cattivo maestro, quel che davvero gli interessa è condurci nelle tenebre terrene, imporci una visione disillusa dei fatti. Non è fra i suoi obiettivi l'indicarci una via d'uscita, alla cui esistenza probabilmente nemmeno crede. Come ogni vero capolavoro, anche M è un'opera profondamente scomoda, uno slancio di sadismo artistico che sconvolge ancora oggi.

Il monologo del Mörder

"Camminavo lungo la strada con due amici - quando il sole tramontò - il cielo si tinse all'improvviso di rosso sangue - mi fermai, mi appoggiai stanco morto a un recinto - sul fiordo nerazzurro e sulla città c'erano sangue e lingue di fuoco - i miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura - e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura"
Edward Munch su "L'urlo"

L'"arringa" del Mörder è giustamente passata alla storia come uno dei monologhi più intensi e lungimiranti mai scritti. Altrettanto indelebile è l'interpretazione straordinaria di Peter Lorre al suo esordio nel cinema (prima di allora aveva lavorato per il teatro, in particolare quello d'improvvisazione). Si dice che Lang, pur nutrendo profonda stima per l'attore, lo abbia maltrattato fisicamente e psicologicamente, così da rendere il suo senso d'oppressione il più veritiero possibile. Lorre, che oscilla magistralmente fra la rovente angoscia e la più infantile rassegnazione, da' vita alla più credibile trasfigurazione cinematografica de "L'urlo" di Munch, di quello stesso smarrimento alienante simbolo di un secolo. Ciò che più stupisce è come l'assassino sia del tutto consapevole della malattia che lo attanaglia, tanto da gridare "Non ho forse questa maledizione in me? Questo fuoco, questa voce, questa pena!". Non solo, la sua è una lucida speculazione sul labile confine fra il mostro e gli altri, fra il carnefice e le vittime: "Chi sei tu che vuoi giudicarmi? E chi siete voi? Un branco di assassini ". Mentre le parole dell'assassino echeggiano nella stanza, vengono inquadrati i volti della folla silente, volti esterrefatti ma partecipi di quel tormento, volti che addirittura annuiscono in segno di comprensione. L'idea che il male in alcuni casi possa essere innocente, in quanto frutto ineluttabile della deviazione psichica, è dura da accettare per lo spettatore. Da qui nasce la necessità di contrapporre alla figura del Mörder uno spaccato d'umanità altrettanto ammorbata. Nell'irrazionalità sprezzante della moltitudine, in quella logica stravolta della sopraffazione, Lang intravede il vero cancro della sua epoca.

Il monologo di "M", oltre che un capolavoro di sceneggiatura e di recitazione, fu una folgorazione geniale. Da presenza agghiacciante ma per lo più invisibile, da minaccia muta ma onnipresente, l'assassino diviene personaggio principale e riconoscibile del dramma. I mostri della sua mente rompono l'afasia e inondano di parole lo spettatore. In una fase di transizione delicatissima per il cinema, quella dell'abbandono del muto, Lang sfrutta al massimo la potenzialità espressiva della recitazione sonora. Una lezione che verrà accolta più o meno consapevolmente da molti colleghi (lo stesso Chaplin chiuderà "Il grande dittatore" con un celebre monologo).

L'omicida di "M" ritornerà sotto altre spoglie in molte creazioni successive di Lang, quelle americane. Si pensi a "Furia", incentrato sul linciaggio, a "Sono innocente", sulla fallibilità della giustizia o a "La strada scarlatta", che si scaglia in modo conciso ma eloquente contro la pena di morte. Protagonisti sono sempre individui densi d'angoscia, snaturati, doppi. Sfortunatamente le produzioni USA tenderanno ad ingabbiare la vena anticonformista ed iconoclasta del regista austriaco, non permettendogli più di eguagliare i vertici del periodo tedesco. "M" resta a tutti gli effetti il film più sincero, libertario e profetico di Fritz Lang.

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Recensione a cura di pier91 - aggiornata al 07/09/2011 10.29.00

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