Recensione love exposure regia di Sion Sono Giappone 2008
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Recensione love exposure (2008)

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locandina del film LOVE EXPOSURE

Immagine tratta dal film LOVE EXPOSURE

Immagine tratta dal film LOVE EXPOSURE

Immagine tratta dal film LOVE EXPOSURE

Immagine tratta dal film LOVE EXPOSURE

Immagine tratta dal film LOVE EXPOSURE
 

"Tutti i pervertiti sono stati creati uguali".

Yu è un liceale la cui madre, profondamente devota, poco prima di morire gli regala una statuetta della Vergine Maria e gli fa promettere di ispirarsi a lei nella ricerca della sua anima gemella.
Suo padre, alla morte della moglie, si converte alla religione cattolica e si fa prete. Intanto Kaori, incomincia a frequentare la chiesa e, lentamente si insinua nella vita dei due. Dopo poco però le cose degenerano e Yu, per attirare l'attenzione del padre depresso dall'abbandono della donna, si inventa di sana pianta peccati da confessargli. Ma quando il padre si accorge delle sue bugie lo manda via, e a Yu non resta altro da fare che peccare davvero. Si unisce così a una banda di giovani che gli presenta un maestro che gli insegnerà l'arte del Tousatsu. E dopo poco Yu si trova a compiere esaltanti acrobazie in stile samurai per fotografare le mutandine delle ragazze in strada. In uno di questi momenti incontra Koike, membro della chiesa Zero, che decide di insinuarsi nella sua vita. Vita che viene ulteriormente complicata dal ritorno di Kaori, che ha portato con sè la figliastra Yoko. Yu incontra Yoko quando è vestito da Sasori, per via di una scommessa con gli amici, e ne rimane affascinato, mentre la ragazza, che odia gli uomini, sembra interessarsi a lui credendolo una donna.

"Love Exposure" non è un semplice film. Come già si può evincere dalla sola lettura del plot si tratta piuttosto di un'esperienza visiva, nella quale sono concentrati alcuni dei temi più cari al regista, primo tra tutti la perdita dell'identità.
Sia che avvenga all'interno di una società inclemente verso i propri membri, che nel seno di un quasiasi culto, essa è il destino ultimo di chi è troppo debole per fronteggiare il male.
La famiglia non è mai un rifugio sicuro, semmai è la genesi del caos che avvolge l'intera società, che qui ci viene impietosamente mostrata in tutto il suo marciume. Il desiderio di controllare il peccato non è che l'altra faccia dell'altrettanto forte desiderio di compierlo. E nulla può salvare da sè stesso chi ha deciso per il male.
Sono Sion torna ancora una volta al racconto di un quotidiano assai labile, dietro cui occhieggia con cattiveria una perversione fuori controllo, che investe senza pietà anche chi dovrebbe custodire la morale. E in più sceglie di intessere la rappresentazione con la sottile inquietudine che in Giappone sembra ancora aleggiare a proposito delle sette parareligiose e con una velata diffidenza verso la religione cattolica.

Ma la vera religione che traspare all'interno del film è quella che invoca una libertà di essere che a nessuno dei personaggi è in verità concessa.
Yu vorrebbe essere semplicemente amato da suo padre, ma deve inventarsi una vita di peccati solo per avere al sua attenzione. Vorrebbe amare Yoko, ma lei lo ama come Sasori, e lo detesta come Yu. Yoko non ha chiarezza circa il proprio orientamento sessuale e vive la sua situazione con un senso di colpa piuttosto pesante. Kaori vorrebbe sposare Tetsu, padre di Yu, ma lui non riesce a lasciare la chiesa, che gli impone il celibato e aspetta un improbabile autorizzazione dalla Santa Sede. Infine Koike si è innamorata di Yu, ma non si consente di accettare le conseguenze dei suoi sentimenti e decide di mettersi tra lui e Yoko, per il solo gusto di asservire tutta la famiglia al culto di cui fa parte.

La tragedia è dietro l'angolo, ma in verità quello che più di tutto appare evidente è la scarsa fiducia dei protagonisti nelle proprie forze e nelle motivazioni che dovrebbero spingere le loro azioni.
Sono Sion questa volta privilegia una narrazione lineare e si consente solo in alcuni casi di arricchire la rappresentazione con l'uso di flashback e ripetizioni, le quali accrescono il senso di stupita meraviglia dello spettatore di fronte a tale incredibile complesso di emozioni represse e ridefinite, che originano semplicemente dal troppo negare i propri sentimenti. La religione e le sette sono il paravento che ciascuno usa, all'interno di un racconto impietoso sulla mancanza di identità che tutti coltivano segretamente nel cuore, che finiranno per soffocare ogni possibilità di espressione con la loro oppressione e falsità ideologica.

Siamo di fronte a un'opera ambiziosa, anche se meno compatta del capolavoro del maestro, l'insuperato "Strange Circus". E la lunghezza è in verità solo un dettaglio, dal momento che ogni capitolo ha un suo preciso equilibrio e dura esattamente quello che è necessario a chiarire ogni possibile dubbio. Ma quello che l'intera pellicola sembra urlare ad ogni passo è il desiderio del regista di sottolineare la mancanza di possibilità di ciascuno di essere sè stesso e la perdita irreparabile di cui questa finisce per essere causa. Non c'è nulla di facile nel modo di vivere dei suoi personaggi, non c'è mai stato nè mai ci sarà. Quello che forse un domani sarà possibile, e lo sapremo solo dopo quattro ore spese a guardare cinque vite distrutte, è che l'amore che è dietro alcuni dei loro gesti riesca a rompere la corazza dell'indiffernza degli altri e alla fine dare a qualcuno la possibilità di liberare i propri sentimenti.

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Recensione a cura di Anna Maria Pelella - aggiornata al 27/10/2009

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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