Recensione l'ospite inatteso regia di Tom McCarthy USA 2007
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Recensione l'ospite inatteso (2007)

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locandina del film L'OSPITE INATTESO

Immagine tratta dal film L'OSPITE INATTESO

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Immagine tratta dal film L'OSPITE INATTESO
 

Piccolo, grande (ed inatteso) film, "L'ospite inatteso" è una di quelle (ormai rare) pellicole che hanno il grande pregio di rivoltarti l'animo e di restarti impresso nella memoria anche parecchio tempo dopo che la parola "fine" è apparsa sullo schermo; una pellicola che regala momenti molto intensi, a volte drammatici, a volte divertenti, che sa parlare di gente e alla gente, con l'obiettivo di svelare sentimenti che convergono nelle solitudini.
Una pellicola che vuole essere (ed è) cinema civile e di denuncia verso una Nazione che si diceva orgogliosa di incarnare gli ideali di libertà e di democrazia, di tolleranza e di solidarietà e che invece ha fatto del problema dell'immigrazione, dopo l'11 settembre, una realtà desolante che dimentica e discrimina l'uomo.
Una pellicola che racconta un fatto accaduto all'ombra della Statua della Libertà, che per lungo tempo e per tanti poveri emigranti ha rappresentato l'emblema e il simbolo del "sogno americano": un sogno promesso ma difficilmente raggiungibile.

Protagonista è il sessantenne e misantropo professore universitario di economia, Walter Vale.
Avvizzito e rinunciatario, rinchiuso nel suo angusto microcosmo, nel quale si è ripiegato dopo la morte della moglie, valente pianista di musica classica, sembra aver perso la voglia di vivere e ogni piacere della vita.
Da cinque anni, ormai (dalla morte della moglie), si trascina tra le stesse, monotone lezioni che, svogliatamente ripropone all'università e le inutili ripetizioni di pianoforte, che si ostina a prendere, forse perché ancora prigioniero del ricordo della moglie, nonostante sia profondamente negato e abbia scarse possibilità di imparare a suonare lo strumento.
La sua vita, però, subisce un profondo cambiamento quando, riluttante, si vede costretto a lasciare il Connecticut e a recarsi a New York per presenziare ad una conferenza socio/economica, in sostituzione di un collega malato.

Recatosi nella sua vecchia casa newyorkese, da tempo disabitata, con stupore scopre che, durante l'ultimo suo periodo di assenza, la casa è stata affittata con l'inganno da un losco agente immobiliare ad una giovane coppia di immigrati clandestini, il percursionista siriano Tarek e la sua giovane fidanzata senegalese, Zainab, che si arrabattono a vivere in attesa di ottenere il permesso di soggiorno negli USA.
Superato il disorientamento iniziale, dopo un attimo di comprensibile contapposizione, nell'animo del professore pian piano si fa strada un sentimento di compassione per quei due ragazzi che non sanno dove andare e (proprio lui che tiene lezioni sui "Problemi dei Paesi in via di sviluppo") decide di ospitarli per un po', almeno fino a quando non troveranno un altro posto dove alloggiare.
Durante la breve convivenza, complice la comune passione per la musica, tra Walter e Tarek si sviluppa un rapporto di sincera amicizia e di reciproco arricchimento interiore, che la più guardinga Zanab disapprova, ma che sarà costretta a riconoscere quando capirà la genuinità e la sincerità dell'affeto dell'uomo per Tarek.

Il professore, che per anni aveva inutilmente tentato di suonare il piano, scopre il fascino "dell'altra musica"; il fascino del ritmo e delle percussioni, grazie al tamburo africano suonato da Tarek.
Tarek insegna a Walter i primi rudimenti dell'arte delle percussioni e lui, così serio e introverso, affascinato dal pulsare dei ritmi, comincia ad andare dietro al ragazzo e a battere il tempo con le mani insieme ai tanti suonatori multirazziali delle band dei percussionisti di strada del Central Park.
L'esperienza aiuterà lo spento professore a ritrovare la gioia di vivere e a scrollarsi di dosso la sua misantropia, il male oscuro che da lungo tempo, ormai, lo attanaglia, facendogli riscoprire la gioia di vivere e la voglia di ricominciare una nuova esistenza.
Fino a quando per un banale incidente nella stazione della metropolitana (resta incastrato in un tornello col suo tamburo e lo scavalca) Tarek non viene fermato dalla polizia e condotto in un centro di detenzione dell'ICE (Immigration and Customs Enforcement) nel Queens, pur non avendo commesso alcun reato, ma soltanto perché, per un disguido, non ancora in regola con il permesso di soggiorno.

Ha inizio così l'odissea dei protagonisti, impotenti di fronte ad una legislazione che non lascia scampo, antidemocratica e incapace di accettare il "diverso", l'immigrato, lo straniero (un problema che non riguarda solo gli Usa ma che si sta espandendo a macchia d'olio).
Il Professore Vale, essendo cittadino americano, diventa l'unica persona che può andare a far visita al detenuto e l'unico che può assicurargli l'assistenza legale, necessaria per riuscire a tirarlo fuori, quando la ferma assume sempre più i connotati di una detenzione.
Ma non è facile: "E' come in Siria", commenta Muana, la madre di Tarek, volata a New York preoccupata per le sorti del figlio, di cui da giorni non ha più notizie.
La vicinananza di Muana, una donna molto sensibile, che nella situazione del figlio rivive la tragedia affrontata anni prima con l'incarcerazione e la successiva morte del marito, un giornalista siriano reo di aver scritto un articolo non gradito al governo, permette al professore Vale di riscoprire l'amore, un amore tenero e disperato che non potrà durare, e il piacere di una vita fatte di piccole cose e di consunte quotidianità.
Ma la felicità tanto è più intensa e tanto più è destinata a consumarsi in fretta: Muana sarà costretta a tornare nel suo paese mentre Tarek, incredulo, non può far altro che aspettare il giorno della sua espulsione.
Un finale in sintonia con la contemporaneità, duro e amaro, tutt'altro che scontato, che lascia nello spettatore un senso di profonda inquietitudine che, al di là della storia che racconta, non fornisce delle risposte ma solleva tematiche che sono sotto i nostri occhi, anche se, a volte, preferiamo non vederle.

Scritto e diretto da Thomas McCarthy (un attore solitamente non protagonista, icona di Eastwood e Clooney - "Lettere da Iwo Jima", "Flags of Our Fathers", "Good Night and Good Luck", "Syriana"), giunto alla sua seconda regia, dopo l'applaudito (ma poco conosciuto) "Station Agent", "L'ospite inatteso" ("The Visitor" è il titolo originale) è un film delicato e sentimentale, tangibile e realistico, che dà voce all'altra america e getta uno sguardo non banale sulla realtà contemporanea che riguarda la scottante questione delle leggi sull'imigrazione negli USA (e non solo).
Un Paese che la politica bushiana ha reso sospettoso e diffidente, sempre meno accogliente; quasi un ritorno alle origini, quando Ellis Island era il luogo dove i poveri immigrati sostavano in quarantena in attesa di essere schedati per diventare cittadini americani, mentre oggi è diventato il luogo dove si sosta per essere schedati e rispediti nei paesi d'origine (vengono in mente gli italiani di Brooklyn senza visto di "Uno sguardo dal ponte", ma anche i migranti analfabeti del più recente "Nuovomondo").

L'idea del film nasce da una storia vera, accaduta sull'onda della paranoia seguita all'11 settembre, della quale McCarthy è venuto a conoscenza durante un suo soggiorno a Beirut e sulla quale si è ampiamente e appassionatamente documentato, che lo ha indotto a scrivere e a realizzare questa pellicola.
Un giovane immigrato mediorientale era stato arrestato e incarcerato in un centro di detenzione (come ce ne sono tanti in America). Dopo un periodo indefinito di detenzione, forse era stato espulso o forse era stato fatto sparire senza lasciare traccia di sè.
Rimane il fatto che i familiari del detenuto non hanno più saputo nulla del loro congiunto.
Una realtà, questa, che difficilmente traspare al di fuori degli Stati Uniti e di cui solo in tempi recenti comincia a trapelare qualcosa, almeno qui in Europa, e che dimostra l'inadeguadezza del sistema legislativo di una nazione che non sa più tendere la mano, almeno in fatto di immigrazione (e che noi stiamo tentando, goffamente, di imitare).

Tutto questo è reso da McCarthy con tocco squisitamente minimalista, davanti al quale non si può rimanere indifferenti, che lo porta a contestare non la regola ma il modo con cui viene applicata.
Due possono essere le chiavi di lettura del film: oltre alla denuncia contro politiche che hanno inasprito leggi, ignorato diritti civili e rovinato rapporti sociali, emerge lo spaccato di una straordinaria esperienza umana e una delicata storia di amicizia e amore; il tutto espresso con tocchi lievi, discreti, quasi poetici, fatti di pause, silenzi, di detto - non detto, anche quando la storia assume caratteri più drammatici che danno al film un senso ricco e complesso, semplice e raffinato.
Il regista è riuscito a creare, con i personaggi di Walter e Tarek, due figure e due caratteri diametralmente opposti che poco o nulla, sembra, possano avere in comune ma che in realtà si completano e si arrischiscono a vicenda: tanto il primo è solitario, spento, introverso, quanto il secondo è comunicativo, esuberante, solare, un trascinatore che riesce a trasmettere alle persone quella forza vitale che credevano di non avere più; la musicalità dell'uno compensa la disarmonia dell'altro; la maturità del primo completa la giovinezza del secondo; la gioia di vivere, l'estroversione e la vitalità del ragazzo smussano l'opacità, il pessimismo e l'avvilimento dell'uomo.

La molla che scuote dal suo torpore l'anziano professore e gli fa scoprire di avere un cuore che batte ancora è il linguaggio universale della musica, vista come strumento vincente di dialogo interculturale, sia essa la sofisticata nobiltà della musica classica oppure il vigore positivo dei ritmi afro/asiatici.
E' il linguaggio della musica che costituisce il valore aggiunto di questa pellicola, il mezzo con cui riesce a comunicare il messaggio di umanità e la consapevolezza e di quanto intimamente arricchisce la reciproca conoscenza di persone di civiltà ed estrazioni diverse; ed è ancora la musica, nel suo parallelismo fra musica colta e ritmi tribali, a fare da collante tra culture, persone e suoni apparentemente lontani.

Eccezionale interprete del film è il non più giovanissimo attore Richard Jenkins, che arriva al suo primo ruolo da protagonista dopo una carriera spesa come caratterista di lusso.
Un artista bravo e convincente, incredibilmente versatile, capace di passare dai ruoli comici a quelli drammatici con straordinaria naturalezza, perfetto nel delinerare la figura dell'uomo ordinario e ad annullare se stesso nel personaggio che interpreta.
Un interprete capace di reggere sulle sue spalle quasi tutta l'intera struttura del film, che ricordiamo in tante pellicole di successo, anche se ai più può riuscire arduo visualizzarne la fisionomia ("A prova di spia", "Shall we dance?", "Vizi di famiglia" - "I Love Huckabees"); un artista prediletto dai Coen, apprezzato da Kasdan e dai Fratelli Farrelly.
Ottima anche la prova della palestinese Hiam Abbas ("La sposa siriana", "Munich" e attualmente sugli schermi anche con "Il giardino di limoni") nel ruolo della madre di Tarek, che qui si rivela capace di profonda sensibilità e di grande pathos espressivo, rappresentati con riservatezza e pudore, ma anche con realismo davvero esemplare.
Doveroso ricordare anche la debuttante Danai Guria nel toccante ruolo della fiera Zainab e l'intenso Haaz Sleiman, un interprete di origini libanesi, dal fascino esotico, bravo e misurato nel far trasparire tutta l'umanità, l'energia e lo spirito gioviale del suo personaggio; ma anche il disorientamento, la paura e il senso di impotenza che lo assale nel momento della detenzione.

Tutto perfetto, dunque?
Non proprio, perché non mancano ingenuità e cadute di tensione, come quando la commedia sentimentale si stempera nel dramma sociale o come nel finale aperto che lascia l'amaro in bocca.
In ogni caso il film "non cambierà il mondo" - come dice Thomas McCarthy, ma sicuramente cambierà le coscienze di chi una coscienza ce l'ha.

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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 12/12/2008

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