Recensione lo chiamavano jeeg robot regia di Gabriele Mainetti Italia 2015
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Recensione lo chiamavano jeeg robot (2015)

Voto Visitatori:   7,44 / 10 (175 voti)7,44Grafico
Miglior attore protagonista (Claudio Santamaria)Miglior attrice protagonista (Ilenia Pastorelli)Miglior regista esordiente (Gabriele Mainetti)Miglior attore non protagonista (Luca Marinelli)Miglior attrice non protagonista (Antonia Truppo)Miglior produttoreMigliore montatore (Andrea Maguolo)
VINCITORE DI 7 PREMI DAVID DI DONATELLO:
Miglior attore protagonista (Claudio Santamaria), Miglior attrice protagonista (Ilenia Pastorelli), Miglior regista esordiente (Gabriele Mainetti), Miglior attore non protagonista (Luca Marinelli), Miglior attrice non protagonista (Antonia Truppo), Miglior produttore, Migliore montatore (Andrea Maguolo)
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locandina del film LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT

Immagine tratta dal film LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT

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Immagine tratta dal film LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT
 

Famo a capisse.
Per anni ci siamo divertiti con supereroi divenuti tali grazie a morsi di ragni radioattivi, esplosioni di macchinari ai raggi gamma, e così dicendo. Per anni abbiamo visto teatri di scontri epici in città come New York, Gotham, Metropolis. Per anni il suffisso man in un titolo è stato associato ad un paladino della giustizia.
In definitiva, gli ammerricani ci hanno cordialmente detto: "I supereroi ce li gestiamo noi, voi state nel vostro".
Tutto giusto, perché davanti i vari Avengers, gli effetti di Cristo e le tette di Scarlett, ma che gli vuoi rispondere?
Poi però...

Prima del però, proviamo a fare un salto indietro nella storia del cinema.
Esisteva, tanti anni fa, prima del Grande Rincoglionimento da reality, il cinema italiano. Quel cinema che con Sergio Leone ha spiegato al mondo come si facevano i western, con buona pace dei Giòn Uèin e dei Giòn For, che con Dario Argento ha mostrato come girare un thriller, che con Mario Monicelli si era preso il monopolio della commedia mandando qualsiasi director al doposcuola.
Noi eravamo i più grandi, e lo eravamo di gran lunga.
Ma c'era un problema. Grosso. Il problema di non poter spiegare a un tedesco, o a un francese, capolavori come "Il Marchese del Grillo", "L'armata Brancaleone", "Totò a colori" (avete mai sentito Totò doppiato in tedesco?, l'alabarda spaziale sui marroni fa meno male), insomma tutti quegli attori che non potevano essere separati dal loro dialetto, dalla loro cadenza, dalla loro appartenenza geografica.
E così, il mondo ha pensato per anni che il trono spettasse ad altri. Certo, gli addetti ai lavori intuivano, sapevano della nostra grandezza, ma al viticoltore di Perpignan come glielo spiegavi "Nell'anno del Signore" di Magni?, il contadino di Kassel come arrivava ad "Amarcord" di Fellini? e il pescatore di Lloret de Mar cosa capiva di "Filumena Marturano" di De Filippo? Poco. Nulla. Probabilmente non ne conoscono l'esistenza nemmeno oggi che hanno internet.

Ciò che sempre ha distinto il nostro cinema è la capacità di entrare nelle storie in punta di piedi, in modo romantico, senza tralasciare nemmeno il più piccolo particolare, raccontando le vite degli uomini più grandi e quelli più insignificanti con lo stesso occhio critico. Ma, per farlo, siamo spesso ricorsi alle nostre diversità culturali, al nostro diverso modo di usare la lingua.
Prima che il discorso diventi una tediosa lezione, torniamo al però.
Come poteva il 'poro' Mainetti, al suo esordio in regia (tralasciando il cortometraggio su Lupin), contrastare i colossi a stelle e strisce?
Se sei Muhammed Alì e devi affrontare George Foreman non ti metti a scambiare pugni, perché finisci al tappeto alla seconda ripresa. Ti metti alle corde, ti copri, le prendi per sette round limitando i danni, e all'ottavo colpisci quando senti il fiatone del più forte. Insomma fai quello che puoi e che sai, anche se questo significa cambiare il tuo modo di boxare. Ed ecco infatti le carte vincenti dell'eroe nostrano.

Intanto il nome. Enzo Ceccotti non diventa Vattelapiandersecchio-man o Sgorb, resta Enzo Ceccotti, e come nella più classica delle tradizioni romane gli viene affibbiato un soprannome, che è poi l'anticipazione nel titolo. "Ma chi sei, Giggherobbò?" diciamo da queste parti se uno fa qualcosa di notevole, o se vogliamo perculare lo sborone di turno. Alessia, la ragazza sciroccata che a seguito di vari traumi infantili vive in un mondo tutto suo, così lo chiama quando lo vede per la prima volta in azione. Anzi, lei lo chiama proprio Hirò, Hiroshi, il ragazzo che diventa Jeeg nel famoso manga e che va in moto (così come Enzo), ma ovviamente "Lo chiamavano Hiroshi" non avrebbe funzionato e allora ecco il nome del suo alter-ego componibile nel titolo e nel soprannome. Già solo per questa accortezza vanno fatti i complimenti a chi di dovere.
Proseguiamo col "come". Come può un ladruncolo di Tor Bella Monaca diventare un super eroe? Semplice, casca nel Tevere e finisce su un barile di roba radioattiva (a proposito qualcuno ha di recente visto Mister Ok?, no, per dire...), passa una notte a vomitarsi l'anima (come è giusto che sia per chiunque finisca in quella melma), e quando capisce di avere i poteri cosa fa? Ruba un bancomat!
Applausi. Non per l'originalità perché anche l'uomo ragno usa i nuovi poteri per guadagnare soldi iscrivendosi ad un torneo di lottatori mascherati, ma perché Enzo è talmente poco eroe che non sa nemmeno che le banconote vengono macchiate dall'inchiostro! E poi l'idea del Tevere...
ma qui torniamo ai problemi col pescatore spagnolo e il fioraio di Utrecht, ai quali non è facile spiegare cosa significhi quel fiume per la Capitale. Ce ne faremo una ragione.

E qui arriviamo al bello vero del film. Alla grande bellezza, come l'ha soprannominata qualcuno (no occhei non è proprio così ma famo finta). Harlem, Bronx, Manhattan... belli, suggestivi, esotici. Mainetti risponde con Tor Bella Monaca, Ponte Sant'Angelo, Piramide (ma su quest'ultima non ne siamo sicuri perché non si vede benissimo). Per chi vive questi posti, ma anche per chi dovesse vederli da turista, sa benissimo che non hanno nulla da invidiare agli amici d'oltre oceano. Perché esistono da molto prima, intanto, perché hanno le loro storie raccontate da scrittori e poeti, per proseguire, e perché Roma è Roma, tanto per chiudere.
Se Sorrentino mostrava il Cupolone e il Gianicolo per avere una fotografia bella, pulita, elegante, romantica, altrettanto non può Mainetti, che ha bisogno del sobborgo, del casino, del nauseabondo. Roma non è solo il Colosseo, è anche lo stadio Olimpico il giorno del derby che diventa lo scenario perfetto per il piano criminale dello "Zingaro".

E così finiamo parlando del cattivo e degli altri personaggi. Luca Marinelli è perfetto.
Non servono spiegazioni o parole in più, guardatevi il film, seguite i suoi movimenti, e godetevi lo spettacolo. Claudio Santamaria, alias Enzo Ceccotti, non è da meno: è solitario, è sfortunato, ha la faccia del perdente che quando capisce di avere una missione la affronta con gli occhi di chi è disposto a sacrificare tutto. Non ha lo sguardo valoroso di Capitan America o la scaltrezza di Batman e tantomeno la distaccata perfezione di Thor o Superman, Enzo Ceccotti è il figlio puzzolente di una Roma incattivita dalle bande, impoverita dai politici e che si sveglia per una partita di calcio.
Ilenia Pastorelli, Alessia, viene dal Grande Fratello e per questo motivo non l'avremmo mai presa, ma ammettiamo che non sbaglia un colpo. Non è bellissima, non ha il fisico scolpito dalla palestra, ha un quarto d'ora tra un incisivo e l'altro. Ma il ruolo della ragazza da salvare e che al tempo stesso riesce a motivare l'eroe con la sua ingenuità, le calza a pennello. Chi si aspettava Miwa è uscito probabilmente deluso dal cinema, ma chi è uscito per questo motivo non ha capito una mazza.

Le uniche note negative risiedono nella parte finale. O forse no. Sicuramente è una forzatura la scena in cui Alessia si libera dal complice dello "Zingaro" e guarda caso stava proprio vicino al punto in cui si incrociano i destini della banda dei napoletani, di Enzo e dello Zingaro stesso. Però è in quel momento che il film potrebbe terminare strappando applausi come fece Fantozzi pronunciando la fatidica sentenza sulla corazzata Potemkin... "salvali tutti... tu che puoi... diventare Jeeg"... Ecco, se fossero apparsi i titoli di coda dopo questa frase probabilmente ora staremmo parlando di un capolavoro assoluto. E invece, siccome anche Mainetti deve piegarsi alle logiche dei supereroi e della storia stessa che ha creato, non riesce ad esimersi dallo scontro finale, dalle super botte, dai cazzottoni, ed è lì che vengono fuori gli italici limiti, perché quelle sono le scene che appartengono ad americani e giapponesi, la nostra cultura (a parte Bud e Terence, ma quella è tutta un'altra storia) si ferma alla morte di lei.
Questo anche perché la giusta dose di sangue si era già vista prima, miscelata con grande sapienza e concretezza. Già, la concretezza, l'altra immensa dote del nostro cinema.

Fortunatamente tutto si chiude su una sequenza altamente spettacolare con una punta di ironia, che merita di essere vista e non spoilerata.

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Recensione a cura di marcoscafu - aggiornata al 25/03/2016 15.18.00

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