Recensione in the mood for love regia di Wong Kar-Wai Hong Kong, Francia, Thailandia 2000
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Recensione in the mood for love (2000)

Voto Visitatori:   8,05 / 10 (114 voti)8,05Grafico
Voto Recensore:   10,00 / 10  10,00
Miglior film straniero
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locandina del film IN THE MOOD FOR LOVE

Immagine tratta dal film IN THE MOOD FOR LOVE

Immagine tratta dal film IN THE MOOD FOR LOVE

Immagine tratta dal film IN THE MOOD FOR LOVE

Immagine tratta dal film IN THE MOOD FOR LOVE
 

Spesso l'Oriente ci regala perle sublimi di cinematografia: è il caso di "In the mood for love", di Wong Kar Wai, esponente della nouvelle vague di Hong Kong. "In the mood for love", ovvero "nello stato d'animo per amare": questo il significato del titolo e questo il tema portante dell'intera narrazione. La storia è molto semplice, addirittura banale: siamo a Hong Kong, nel 1962, quando Chow (Tony Leung, Coppa Volpi al Festival di Venezia del 2000) si trasferisce in un modesto appartamento, accanto a Li-zhen (una splendida Maggie Cheung) e al marito.
Chow e Li-zhen si incontrano spesso, in maniera prima casuale, poi voluta e una sera scoprono che i loro rispettivi coniugi sono amanti. Inizia così il loro avvicinamento, fino al momento in cui i due comprendono di amarsi o, forse, prendono solo coscienza di un sentimento che già nasceva. Gli innamorati si lasciano addirittura andare a prove attoriali di confessione al marito di lei ma, con la partenza di Chow per Singapore, la loro relazione si interromperà per non riprendere più.

Scopriamo poco a poco che i due protagonisti, circondati da un'aura di tristezza, sono prigionieri di un'assenza: i loro sposi sono solo inquadrature parziali, voci al telefono, oggetti recapitati dai viaggi di lavoro. Gli oggetti sono infatti fondamentali nella poetica del regista: gli specchi in cui spesso si riflettono gli attori, le scarpe, il fumo delle sigarette, gli abiti. Ed è proprio a questi ultimi, ai raffinati qi pao indossati da Li-zhen che, nel film, viene conferito il ruolo di simbolica clessidra che scandisce il trascorrere di giorni, solo all'apparenza, tutti uguali.
Ma il cinema di Kar Wai è fatto anche di silenzi, di dialoghi semplicissimi, di cose non dette, o meglio già dette, di un'affinità la cui dimensione è conosciuta unicamente dai due innamorati e che ci viene svelata solo in parte, indirettamente.
Come degli insoddisfatti voyeur, veniamo volutamente esclusi dall'intimità dei due, che si elevano ad anime eteree ed estranee all'universo reale ed emotivo che li circonda. Non vediamo, ad esempio, tutto ciò che accade nella stanza 2046 (numero da cui prenderà il titolo il lavoro successivo del regista): ciò che ci viene mostrato è solo la frustrazione di due persone in cerca di vendetta e, al contempo, in lotta contro un sentimento che turba equilibri preesistenti, ancorché fragili. Eppure, dietro la porta chiusa, avvertiamo tutta la carnalità di questo amore incorporeo, doloroso e sospeso; non è importante che esso venga realmente consumato, perché l'emozione è tanto palpabile da andare oltre l'atto in sé.

L'erotismo, infatti, non è mai ostentato: la sensualità di Li-zhen viene enfatizzata unicamente dalla macchina da presa che segue i suoi movimenti, in inquadrature parziali che riempiono lo schermo con dettagli del suo viso e del suo corpo sempre vestito, quasi ad accarezzarli, come se lo spettatore si trovasse a spiarla dal buco di una serratura. E' in particolari come questi che si avverte l'estrema cura con cui il film è costruito, e sono le stesse interviste al cast a raccontarci la meticolosità del regista di Hong Kong che non lascia nulla al caso: la scenografia, le luci soffuse che esaltano le cromie, l'enorme quantità di girato al confronto della effettiva durata della pellicola, il tema portante della colonna sonora (firmato da Michel Balasso) che - ossessivamente riproposto - accompagna lo svolgersi di questo amour fou ossimoricamente compostissimo, sono i risultati di un lavoro di estrema selezione.

Nel finale, in assenza dei cambiamenti di Li-zhen (giustamente definita "donna-quadro") è un filmato originale dell'epoca ad avvertirci che sono passati alcuni anni quando ritroviamo un malinconico Chow in Cambogia, per il suo lavoro di inviato. Le rovine di Angkor Vat, vestigia di una civiltà sepolta dal tempo, fanno da sfondo alla conclusione della storia: il grido silenzioso dell'uomo, il gesto con cui sigilla le parole sussurrate a una fenditura tra le pietre sono una simbolica cerimonia funebre per un sentimento che diventa anch'esso memoria.

Per quanto la cifra rappresentativa della vicenda sia distante dalla sensibilità occidentale, in cui tutto sembra dover essere reso esplicito e addirittura ostentato, non si può non rimanere colpiti dal modo struggente ed essenziale in cui essa ci viene raccontata.

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Recensione a cura di martina74 - aggiornata al 18/11/2005

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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