Recensione henry regia di Alessandro Piva Italia 2011
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Recensione henry (2011)

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locandina del film HENRY

Immagine tratta dal film HENRY

Immagine tratta dal film HENRY

Immagine tratta dal film HENRY

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Immagine tratta dal film HENRY
 

"La periferia dell'animo umano nel centro della Capitale"
Citazione dal regista Alessandro Piva.

"Henry" è uno spaccato di vita di più personaggi che ruotano tutti attorno non a qualcuno ma a qualcosa: la droga. Ed è la droga che fa muovere un giro di bande rivali destinate a collidere in una Roma molto noir.
La storia riceve un forte scossone il giorno in cui Rocco (Pietro De Silva, "Non ti muovere") uccide il suo pusher Spillo e la madre nella loro casa di Torpignattara, zona di Roma est tristemente famosa per fatti di cronaca nera. Si trova sul luogo del duplice omicidio il suo sfortunato amico Gianni (Michele Riondino, "Fortapàsc"), che subito viene arrestato come principale indiziato dal commissario Silvestri (Claudio Gioè, "La meglio gioventù") e dal suo aiutante Bellucci (Paolo Sassanelli, "LaCapaGira"). In realtà era andato a prendere la "dose" per la sua ragazza, la bella Nina (Carolina Crescentini, "Boris"), che lavora in palestra come insegnante di aero kombat.
Le indagini porteranno ben presto ad individuare una lotta per lo spaccio di coca tra una famiglia meridionale di Civitavecchia al cui vertice c'è il boss Franco (Alfonso Santagata, "Palombella rossa"), ed una banda di africani guidati da Karanja (Eriq Ebouaney, "The horde"). Nel frattempo, in carcere, Gianni decide di lasciare la sua ragazza non riuscendole a perdonare di averlo mandato da Spillo proprio nel giorno dell' omicidio. Nina allora, decisa a levarsi dai problemi, cerca di capire anche lei cosa sia successo nella casa del pusher, e le sue scoperte la portano a conoscere Kueku, uno della banda degli africani, salvandogli la vita dai "gorilla" di Franco.
Ma a certi giri non si scappa facilmente: i due saranno infatti trovati il giorno dopo e portati a casa di Karanja, luogo dove ci sarà una sorta di resa dei conti di tutti i protagonisti, i poliziotti e le bande rivali, qualcuno perderà la vita e qualcuno riuscirà a scappare. Come nella vita anche al cinema certe scelte si pagano, e non esistono tasti per resettare e tornare indietro.

Da questo momento la recensione contiene elementi di spoiler; se ne sconsiglia pertanto la lettura a chi non abbia ancora visto il film.

Dal romanzo di Giovanni Mastrangelo, "Henry" di Alessandro Piva risulta un film decisamente mediocre e con troppe troppe incongruenze e superficialità. Spesso il problema del passare dal cartaceo alla celluloide è il dover comprimere o tralasciare note senza le quali la resa risulta forzata, ad esempio nella caratterizzazione dei personaggi. Pur essendo un film girato a Roma sentire un poliziotto, Bellucci, che usa termini come "pischello" parlando dell' indiziato decisamente non è elegante, anche se questo è un artifizio per introdurre in una certa ottica il suo personaggio, che diventa via via sempre più una macchietta che (si spera) non ha riscontri nella realtà. Oppure quando chiede a Nina, che gli offre un caffè, se ha del rum. La domanda che ne nasce di conseguenza è: "Ma non era vietato bere in servizio?", e le cose peggiorano in un dialogo in cui finge di non capire la parola "neri" ribattendo con: "ma chi? Gli africani?". Se voleva essere una battuta non fa ridere, se voleva caratterizzare fa pena. E a proposito della banda di Karanja non si capisce perché parlino tra loro in inglese; va bene le diversità di linguaggio tra i popoli africani, ma se poi viene messa in scena, tra due di loro, una inguardabile cerimonia propiziatoria atta ad uccidere un rivale, in cui parlano nella loro lingua, ecco che va a stridere con il dialogo di prima. Mettiamoci d'accordo: lo parlano uno stesso dialetto o no?
In contrasto col fantozziano Bellucci c'è l'integerrimo Silvestri, del quale vengono tessute le lodi dallo stesso collega, ma che, nel momento clou delle indagini, DIMENTICA IL CELLULARE DI SERVIZIO A CASA!!! Questo è un fatto che butta nel secchio anni e anni di polizieschi in cui quelli che dovrebbero essere i "buoni" arrivano puntualmente in ritardo, ed eccone svelato il motivo secondo Piva… Anche qui lo spettatore medio si augura che certi personaggi rimangano nella finzione, perché un conto è essere ottusi o violenti, un altro è essere rimbambiti. Tipo il poliziotto delle ultime scene. Palazzo della resa dei conti. Due famiglie di trafficanti. Un ostaggio. Il commissario e il suo secondo. In pratica si profila se non proprio l' Inferno, quantomeno un girone dantesco. Arrivano le volanti in aiuto di Silvestri e Bellucci, prontamente salgono per evitare una strage, e quanti ne rimangono a guardia delle macchine e dell' unica uscita? UNO SOLTANTO!!! "Quest'ultimo sarà una specie di Rambo in uniforme" viene da pensare. Errore. Perché quando si accorge di Rocco che era rimasto ad aspettare Franco e i suoi, pronuncia la classica frase da poliziotto sfigato: "rimanga lì e non si muova", si gira, ed ovviamente è l' ultima cosa che fa.

Una menzione particolare meritano gli "a parte", ossia dei monologhi che si alternano alla storia, una sorta di extra narrazione per esternare i pensieri dei singoli personaggi. Peccato che nella maggior parte dei casi siano noiosi e inutili, in particolare quando Rocco ci regala una digressione su cosa sia più giusto, per uno Stato, tra il legalizzare la droga o il finanziare una guerra. Filosofia spicciola e stucchevole che in un film del genere è totalmente fuori luogo.
L' ultima stonatura nei titoli di coda: scorrono i nomi e gli oggetti stilizzati, ognuno coi suoi rimandi precisi. Fin quando non spunta una siringa, l' oggetto più comune che viene in mente quando si parla di drogati. Già, peccato che negli 86 minuti non ce ne sia mai traccia, perché l' assunzione è sempre mostrata tramite la semplice sniffata.

Peccato perché la realizzazione di un classico noir con Roma di sfondo non era decisamente male, nessun personaggio totalmente buono o totalmente cattivo, anzi la continua alternanza delle due facce.
Bella anche l'idea della denuncia di certe pessime abitudini della polizia nostrana: Bellucci è solito assumere anch'egli cocaina, presa in parte dai luoghi delle retate o dalla scientifica, lui che è il personaggio "leggero" della storia si macchia di un peccato non certo veniale e la sua morte nel finale, per fare da schermo al futuro papà (il collega Silvestri), è una sorta di redenzione.

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Recensione a cura di marcoscafu - aggiornata al 02/03/2012 17.20.00

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