Recensione family life regia di Ken Loach Gran Bretagna 1971
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Recensione family life (1971)

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locandina del film FAMILY LIFE

Immagine tratta dal film FAMILY LIFE

Immagine tratta dal film FAMILY LIFE

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Immagine tratta dal film FAMILY LIFE
 

1 - UN MONDO DOVE NON POTRAI CAMBIARE MAI NIENTE

"Disperatamente normale", quanto può una definizione del genere esprimere questo film? E quanto può essere accostata, come un marchio indelebile sulla pelle, la "normalità vigente" davanti alla famiglia di Janice, dove i ruoli subalterni di padre e madre vivono in rassicurante conflitto l'uno con l'altro?
Due entità separate ma estinte che, insieme, possono produrre effetti devastanti sulla psiche degli altri.

È un perenne conflitto verbale, ciò che circuisce uno dei film più devastanti di Ken Loach.
Antitetico fin dal titolo, che produce un effetto rassicurante, quasi a volerci spingere "oltre" quella dimensione di caustica "normalità" che suggerisce.

Tratto dal tele-dramma di David Mercer "In two minds" e ispirato alle teorie dello psichiatra Ronald David Laing (autore di "L'io diviso"), "Family life" è un film compresso in una dimensione umana e sociale di impotente staticità, in un mondo dove "non potrai mai cambiare niente", nello squallido agglomerato urbano dove regna la passività e l'inesistenza.
E Janice diventa vittima di questo sistema, come se fossimo di fronte a una barriera architettonica che esula dai confini della realtà.

Si è parlato a lungo di "essenzialità" nei confronti del cinema di Loach, quell'indubbia capacità di esprimere nella ricchezza della parola, anzi "delle parole", tutta l'apparente carenza complessiva della rappresentazione ambientale.
Ma c'è di più, perché il regista inglese riesce abilmente a collocare lo spettatore in uno spazio temporale e culturale ben preciso, senza che ne avvertiamo più di tanto la presenza.

"Family life" esce nei cinema nel 1971, con qualche anno d'anticipo sulla discussa legge Basaglia (1978), e sembra di assistere a un ribaltamento acritico e coercitivo dell'urgenza espressiva e generazionale di un film made in USA come "Taking off" (1970) di Milos Forman.
E' pertanto giusto riconoscere al film di Loach una sua evidente identità temporale (il 1971), in quella giostra di oppressioni e oppressori che tentano con ogni mezzo di vanificare ogni minimo concetto rivoluzionario, sia dal punto di vista medico che umano e sociale.
Emblematico, pur nella sua veste dimessa, il personaggio del psichiatra Mike - senza dubbio un riflesso di Ronald David Laing - che crede nei metodi alternativi della salute mentale e viene per questo soppiantato dai burocrati tradizionalisti della psicoterapia.

Al primo impatto, "Family life" si rivela infatti un film a tesi che mette in rilievo l'impasse umano della protagonista, facendo in questo senso un percorso inverso rispetto a un altro film sulla schizofrenia, ma americano, come "I due mondi di Charly" (1969).
Come vedremo nel film, lo psichiatra che combatte vanamente contro la medicina "tradizionale", per portare i giovani a un vero e proprio lavoro di gruppo, viene due volte smentito dalla realtà: quando viene deliberatamente allontanato dal suo posto di lavoro e quando a Janice viene severamente vietato l'incontro con un suo coetaneo ospite dell'istituto.
Le "distanze" collimano con il bisogno crudele di dissociare sempre di più le persone mentalmente disturbate tra di loro, trasportandole in quell'inferno quasi autistico di colpevolizzazione e "anormalità" che avevano già trovato nelle loro tristissime esperienze familiari.

"Family Life" è anche un film post-68, nel senso più politico del termine. La conoscenza reciproca di un dramma comune, di un disagio che si esprime inizialmente nella "terapia di gruppo" fa pensare a una comunità hippie, quando il suono di una chitarra folk o anche la straordinaria consapevolezza di potersi esprimere con gli altri serve ad evitare la dissociazione mentale di cui si parla in seguito.

2 - UCCIDERE LA VITA, UCCIDERE LA MORTE

I genitori di Janice vivono in simbiosi l'uno con l'altro. Davanti al psichiatra, la madre mostra inizialmente il peggio di sé, arrivando a condannare la "strana intimità verbale" dell'uomo con la sua assistente. Ella deplora ogni tipo di convivialità sociale, costruendo un suo mondo dove è tangibilmente espresso ogni tipo di veto riguardo i rapporti interpersonali.
L'orribile ma debole figura paterna, schiacciata dalla personalità autoritaria e bigotta della consorte, sembrerebbe disposta ad aprirsi a un confronto con l'analista, quando si trova in seria difficoltà a dover raccontare l'assenza di intimità sessuale con la moglie. Davanti al suo imbarazzo, alla sua repressione fisica, arriva a giustificare il tutto ammettendo di essere l'artefice del concepimento di due figlie.

Nel film il regista pone un'attenzione quasi morbosa - amaramente ironica - sul fatto che Janice prima dei vent'anni non aveva mai dato segni di squilibrio mentale di alcun tipo.
E' interessante notare come questa rivelazione accompagni tutta la storia fino a diventare, nell'epilogo, l'alibi grossolano e sconcertante di più medici.
I problemi di Janice all'interno del nucleo familiare cominciano quando lei resta incinta, e consecutivamente, è costretta dalla madre ad abortire. La donna, bigotta e dai forti principi morali, compie un atto per lei illegale, relegando alla figlia tutte le responsabilità morali della sua "scelta". In questo contesto, riesce a trasmettere alla figlia l'inadeguatezza del suo sogno materno, provocando l'annientamento psicologico dell'identità sessuale e della personalità della ragazza.
Janice arriva, dopo tanti confronti difficili, a reclamare senza mezzi termini che "la madre vuole ucciderla", segno eclatante ma condivisibile della pericolosità coercitiva della genitrice.

Il film di Loach riesce così a penetrare nel "corpo mentale" dello spettatore inseguendo un confronto verbale da cui si esce stravolti, annientati, costretti a fare i conti con una degenerazione retriva che porta all'involuzione psichica della protagonista.
Janice non può conoscere e vedere ragazzi, costretta dai sensi di colpa a nutrirsi esclusivamente della condanna dei genitori, quella che esplicitamente subisce in una realtà quotidiana sempre più oppressiva.

3 - TWO SISTERS

Emblematico, in questo senso, il confronto dei genitori con la sorella maggiore, "colpevole" di essere indipendente, di avere una famiglia tutta sua e di essere "una madre felice e senza repressioni".
Il duro confronto con i genitori esprime ancora una volta l'incapacità di una madre o un padre a confrontarsi con la propria realtà. Del resto, per tutto il film noi assistiamo impotenti all'annientamento mentale della madre verso la figlia, nell' "Io diviso" sempre più incapace di ribellarsi attivamente e cercare una via di fuga, ormai costretta a privarsi della stessa identità pur di non contravvenire alle regole vigenti.
Si direbbe quasi un "gioco al massacro" insidioso dove una donna di mezza età, di scarsa cultura ma dotata anche di un certo rigore intellettuale, trova modo di operare affinché la figlia non insegua quell'indipendenza affettiva che ella stessa si è negata.

il personaggio della sorella finisce per recidere - forse definitivamente - i rapporti con la famiglia, lasciando Janice in balia dei due "mostri". Con le loro ossessive "premure" non fanno altro che destabilizzare la speranza della figlia minore di vivere una vita "normale". Un tunnel dove si spegne anche la minima persuasione soggettiva.
E proprio la "normalità deviante" dei genitori finisce per sovvertire i canoni dell'esistenza neutrale, riproducendo un essere umano come fosse una "larva" costretta a privarsi anche del dono della sua personalità.

4 - IL TEMPO MI UCCIDE

"L'io diviso" di cui parlava Laing intendeva la schizofrenia come una forma di comunicazione sofferta, attraverso la quale l'alienazione provoca i germi di un malessere (non di "malattia", attenzione) che trova le sue radici nel confronto sociale.
La stessa Janice finisce per aggravarsi non appena si rende conto che le attenuanti "terapeutiche" della medicina tradizionale hanno lo stesso riscontro repressivo del suo inferno familiare.

Ed è proprio verso l'epilogo che troviamo uno dei film più corrosivi e "politici" di Loach, capace di scagliare anatemi e atti d'accusa contro un intero sistema, sia istituzionale che sociale, sia familiare che terapeutico.

Oscurato il personaggio di un medico moderno e umano come il dottor Mike Donaldson, con i suoi metodi in contrasto con la statica cecità della medicina ufficiale, il "caso" di Janice passa nelle maglie rassicuranti ma insidiose del conformismo vigente, da cui aveva invano cercato di sottrarsi.

Osserva Laing: "Il conformismo, la normalità colpiscono il processo di costruzione di sé dei giovani individui".
Janice viene sottratta più volte a un confronto aperto con il prossimo, al punto di prevenire persino l'"impurità presunta" di un atto sessuale come segno di ennesima devianza psicologica, anche solo colpendo l'intenzionalità e non l'atto in sé.
La scena clou, già citata, dei genitori con la sorella, è in qualche modo tipica del cinema inglese più o meno contemporaneo (come non ricordare il duro confronto familiare di "Segreti e bugie" di Mike Leigh, vent'anni dopo?).
Probabilmente tutto questo avviene in una società fortemente repressa, privata delle proprie emozioni, atte a scaturire nei momenti più inopportuni.

Si parlava di impotenza, e "Family Life" comunica un forte senso di rabbia e di impotenza. Nonostante le buone intenzioni di Tim, l'uomo con cui Janice avrebbe voluto (potuto?) vivere, la malasorte si riversa sulla ragazza e, conseguentemente, anche su tutti noi.
E' come se Loach ci rendesse tutti responsabili del suo destino. E' come se fossimo testimoni silenziosi e complici della (vera o presunta) follia di tanti ragazzi come lei. E alla fine, il nucleo familiare si allarga, fino a colpire tutto il conformismo vigente capace solo di tacere o dichiarare, con recidivo squallore, l'incomprensibile crollo mentale della protagonista.
Un padre meschino e violento, una madre che pretende fino alla fine di "entrare nella mente della figlia".

Girato con uno stile minimale che quasi enfatizza una semplicità visiva quanto mai anemica, se non persino metafisica (appunto l'immagine in verticale di tante dimore uguali e complici della medesima bruttezza), "Family Life" è quel tipo di film di cui si può contestare l'approccio stilistico ma non i mezzi (espedienti?) atti a commutarlo.
Un'opera che rivela l'estraneità visiva di una vitalità assente, quasi un desiderio reciso, destinato ad occultarsi sempre più.

In una bellissima sequenza, quando Janice e un ragazzo dipingono di blu le siepi di quelle anguste proprietà residenziali, abbiamo per un attimo la percezione che la vita, ovunque, possa essere vissuta. Ancora. Contrariamente a quanto si creda noi non siamo mai quello che vediamo.

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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 21/06/2010 11.04.00

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