Recensione duplicity regia di Tony Gilroy USA 2009
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Recensione duplicity (2009)

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locandina del film DUPLICITY

Immagine tratta dal film DUPLICITY

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Il film si svolge tra Dubai, Miami, Cleveland, Roma, New York, con protagoniste due ex spie dei servizi segreti di stato, un tempo al servizio degli Stati Uniti e dell'Inghilterra. La coppia di agenti segreti, di nome Claire Stenwick (Julia Roberts) e Ray Koval (Clive Owen), nel passato aveva avuto una storia d'amore.
I due nell'immediato lavorano, separatamente, per due grosse ditte commerciali inserite anche nel mercato mondiale dei cosmetici, che si fronteggiano con ogni mezzo per scoprire e brevettare una nuova e misteriosa formula chimica che sembra essere in grado di far ricrescere i capelli; quindi finiscono per incontrarsi di nuovo e dopo alcuni roventi dialoghi legati alla paura di perdere e ai pericoli della missione che li vede in gioco con contrari interessi, essi percepiscono la rinascita di antichi desideri erotici. La reciproca attrazione li porta a un nuova relazione d'amore, ma il loro forte sentimento è contrastato dai rispettivi compiti professionali che sono chiaramente in opposizione, dualistici, incompatibili, finendo per obbligarli a scelte diverse.
Sulla scia dell'irrefrenabile passione amorosa, decidono a un certo punto di ingannare le ditte per cui lavorano, unendo le proprie forze e impegnandosi nella ricerca del nuovo prodotto.
Centrato l'obiettivo, trovata la formula chimica tanto ambita e pronti a venderla al migliore offerente sul mercato, la sorte riserverà loro una sorpresa.

Tony Gilroy, regista e sceneggiatore emergente, abile con la macchina da presa quanto basta per fare un film di serie A e molto innovativo nel modo di raccontare, gira con "Duplicity" il suo secondo film e, seppur alle prime armi dimostra una capacità non comune nell'assemblare visualmente gli intrecci della sceneggiatura e nel deviare le comuni attese degli spettatori, generate dalle tensioni narrative ben costruite, verso soluzioni finali del tutto inaspettate.

"Duplicity" è un film da non sottovalutare, anche se difficilmente riuscirà a bissare il successo d'esordio avuto da Gilroy con "Michael Clayton", perché in questo film le sperimentazioni ci sembrano francamente troppe numerose, anche se sono state piuttosto apprezzate da buona parte dei critici.
Difficilmente, nell'immediato, le innovazioni radicali apportate ai modi di raccontare di un film potranno essere di gradimento a un pubblico vasto; per lo più esse possono appagare coloro a cui piace analizzare il film trascurando il primo effetto d'insieme suscitato dalla pellicola.

"Duplicity" è un film in bilico tra lo spionaggio romantico ed il thriller; ha un'andatura che sembra molto slegata dalle solite strutture narrative del genere, è molto libera, sciolta da ogni appariscente ornamento visuale, incapace di contraddistinguersi in un'appartenenza stilistica univoca. Un'andatura che appare da subito slegata da ogni codice moralistico classico precostituito, che sarebbe facile esca per uno spettacolo a buon prezzo, ma che nonostante ciò si avvale di situazioni e dialoghi talmente intelligenti, ironici, sarcastici, sprezzanti verso il male più banale che sta entrando in gioco, da riuscire a tener desto quasi costantemente un forte desiderio di seguire il racconto, di vedere il film fino in fondo, accompagnati da quelle piacevoli apprensioni tipiche della finzione legata al thriller.
Il film è formato da un ragnatela di intrecci molto complicata, difficile da interpretare in breve tempo, e anche da gustare subito in tutte le sue logiche e sfumature, ma è talmente ben congeniata, calibrata, da lasciare all'intuito dello spettatore il gioco più allettante, quello di indovinare il senso principale del film, ciò che non bisogna perdere di vista per divertirsi veramente, tralasciando trabocchetti e situazioni secondarie, false piste narrative, sempre in agguato, quelle situate in ogni spigoloso angolo del racconto.
La pellicola è sostenuta da un'interpretazione di alto livello che ne arricchisce via via la fascinazione, con protagonisti quattro attori veramente in parte, del calibro di Julia Roberts e Clive Owen (coppia già apprezzata nel film drammatico "Closer", del 2004) e i noti Paul Giamatti e Tom Wilkinson, attualmente molto in voga.

In "Duplicity" trovano spazio anche l'amore e il sentimentalismo, stranamente non come corollario a una storia principale centrata sulla spionaggio ma come filo conduttore di tutta le vicende, capace di imporsi su tutto quanto il film sembra promettere di cinico e violento, in virtù di quel noto e magico potere che ha l'amore nel riordinare gli accadimenti della vita in una logica altra, capace di riclassificare i disagi e i piaceri su un piano esistenziale diverso, che diventa quasi irriconoscibile, sorprendente, singolare, facendo provare anche allo spettatore, nel suo immaginario, l'ebbrezza dell'uscita insperata dall'abitudinario e dal vecchio.
È un romanticismo quello di "Duplicity" molto particolare, inserito in un contesto di drammatiche trasgressioni alle regole più elementari della vita e della competizione commerciale, che riesce a mantenere questa definizione, a sopravvivere cioè nominalmente, grazie a una sorta di ironia e sdrammatizzazione, a volte beffarda, graffiante, sapientemente diluita in tutto il corso del film.
Un romanticismo a sorpresa, forse a volte un po' ibrido, intrecciato con la parodia dei principi nobili di un tempo perduto, tra i quali la cosi detta fedeltà dovuta per principio e non per interesse, divenuto ormai un mito, un fantasma. Un romanticismo intriso di un'impossibile deontologia professionale, come quando le ingenue forme della gelosia delle due spie, protagoniste del film, legate da un amore e odio ben contrastato aprono un interminabile, reciproco dubbio, una diaspora intorno alla validità dell'etica professionale perseguita da ciascuno.
Un sentimentalismo complesso che risulta del tutto assente nel passato cinematografico più legato a questo genere di film.

"Duplicity" mantiene comunque ritmi narrativi suggestivi, originali, con un crescendo di spinte attrattive verso la curiosità quasi eccezionale, lungo un ben suscitato bisogno di partecipazione identificativa e proiettiva verso i personaggi, che diventa a un certo punto una sorta di osmosi visiva, una felice fusione verso i sentimenti più vivi che animano Julia Roberts e Clive Owen nei loro ruoli. Tutto ciò conferma la tesi di chi sostiene da tempo che nel cinema lo spazio per nuove invenzioni narrative è ancora molto ampio.
È un raccontare quello di Gilroy che propende nelle idee e nei contenuti se non nelle scene ad essere barocco, ampolloso, verbalmente ridondante; ma tutto ciò rimane nell'indecisione più vaga, inconcludente, nell'intenzione più incerta, nel dubbio quasi angoscioso di cosa scegliere tra il rimanere nel canone filmico tradizionale, ricco di sintesi o l'uscirne completamente fuori. Quello a cui tende lo stile di Gilroy perciò non giunge mai a concretizzarsi, a plasmare il film di un'impronta precisa, univoca, inconfondibile ma vive in una dimensione altra, aperta su un orizzonte mai frequentato dove possono crearsi nuovi legami e relazioni tra la teoria del cinema e i gesti, i segni, le azioni inedite della singola opera filmica.

La narrazione di "Duplicity" si piega però all'improvviso nel corporeo più asciutto, magro, nel familiare più banale, nell'abitudinario meno impressionante, esponendo a ventaglio una varietà di sentimenti ed emozioni collaudate, riconoscibili, ben sperimentate dallo spettatore esperto, acquisite lungo una tradizione di gusto un po' addomesticata, che fa smettere di sognare immergendoci nel piacere o nell'orrore del ritrovato non cercato.
Evidentemente Tony Gilroy crede fermamente in un altro modo di raccontare, atipico, inusuale, appropriato a un cinema nuovo che tende a proiettarsi nel futuro, ma non abbandona del tutto la tradizione perché sa che solo essa può fare da trampolino di lancio all'innovativo, allo sperimentale più audace.
La macchinosità delle scene, che trascina lo spettatore in un vortice di pensieri estremamente ragionati, cervellotici, elucubrati a fatica nella direzione di un senso, non è un difetto in assoluto - anche se a volte il film è eccessivamente enigmatico - perché educa lo spettatore a cercare il piacere più nel composito, nel meditato, più che nello scorrere dispersivo e veloce dei significati scenici presi in un gioco di attrazioni effimere.

Il film ha dei doppi finali pregevoli, intelligenti, imprevedibili, in un certo senso anche commoventi, come da tempo non eravamo abituati a vedere o a immaginare in una spy-story.
Lo svolgimento finale è ricco di un pathos raro nel genere, che rilascia una nostalgia particolare, quasi del tutto priva di un oggetto filmico classificabile o individuabile, una nostalgia che fa forse da richiamo alle storie più personali degli spettatori, suscitando loro evocazioni fantasmagoriche di forte intensità come se queste appartenessero a un altro film, psichico, che si svolge nella loro mente in modo parallelo alla proiezione in sala.

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Recensione a cura di Giordano Biagio - aggiornata al 29/04/2009

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