Recensione americani regia di James Foley USA 1992
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Recensione americani (1992)

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locandina del film AMERICANI

Immagine tratta dal film AMERICANI

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Immagine tratta dal film AMERICANI
 

Adattare una piéce teatrale per il grande schermo è cosa pericolosa, tante sono le insidie celate nel diverso linguaggio dei due mondi. Il teatro è caratterizzato da una maggiore fissità delle ambientazioni e dalla preminenza dei dialoghi sulle immagini; caratteristiche, queste, che mal si adattano alla dinamicità dei tempi cinematografici. Accade però talvolta che ottimi sceneggiatori, registi in stato di grazia ed interpreti azzeccati riescano a compiere il miracolo, generando una serie di alchimie che trasformano un adattamento cinematografico di una piéce in un film perfettamente indipendente, teso e carico di emozioni.
"Glengarry Glen Ross" (tremendo l'anonimo titolo italiano "Americani") rientra a pieno titolo in uno di questi casi: l'omonimo testo di David Mamet (anche sceneggiatore) vive di vita propria nella miglior pellicola dell'altrimenti mediocre James Foley ("Who's that girl?", "Confidence – La truffa perfetta"), coadiuvato da una girandola di interpreti come mai si era vista prima, e mai si vedrà di lì in avanti.

In una filiale minore di un'agenzia di real estate, un pugno di venditori di terreni viene lanciato in un gioco al massacro: chi riuscirà a chiudere il maggior numero di vendite vincerà una cadillac, mentre chi si classificherà secondo avrà in premio un set di coltelli. Il premio per il terzo posto sarà invece il licenziamento.
I quattro venditori (l'anziano Shelley Levene, lo spavaldo Ricky Roma, l'irascibile Dave Moss ed il pavido George Aaronow) si troveranno così proiettati in un incubo in cui verranno messi in gioco non solo il proprio lavoro, ma anche la propria morale, dignità ed integrità.

"Glengarry Glen Ross" è una tragedia. Una tragedia in cui un pugno di uomini ridicoli, ciascuno perdente a modo suo, lotta per sfuggire alla mediocrità, e lo fa per salvare non solo il posto di lavoro ma anzitutto la propria dignità di essere umano.
Sin dall'inizio è chiaro che l'agenzia, dominata dal pusillanime e rancoroso direttore di filiale Williamson (un eccellente Kevin Spacey), è un microcosmo in cui invidie e frustrazioni infestano l'aria. Quando poi sulla scena irrompe il dirigente Blake (Alec Baldwin, che con un monologo di pochi minuti fornisce probabilmente la migliore interpretazione della sua carriera) le coperture saltano, e le umiliazioni cui i venditori sono costretti li trasformano in piccoli esseri nudi dinanzi alla sconfitta.
La ricerca della vittoria a tutti i costi, superando la prova imposta da Blake, rappresenta soprattutto il tentativo dei quattro di dimostrare di non essere dei falliti: la ricerca di un alibi per quelle quattro anime disperate diventa vitale, e si materializza nei "contatti". È impossibile vendere un terreno se non si hanno dei buoni contatti, assolutamente impossibile: non è colpa mia, ma dei contatti! Senza contatti non si va da nessuna parte. I contatti, tutto gira attorno a quei maledetti contatti.
Ed è così che accade. È così che focalizzando l'attenzione sui contatti, i protagonisti di questo carosello dell'orrore distolgono l'attenzione dalle proprie caratteristiche.

Moss ed Aaronow sono agli antipodi: irascibile, arrogante e supponente il primo (interpretato dall'ottimo Ed Harris), apatico, placido ed ignavo il secondo (cui presta il volto l'eccellente caratterista Alan Arkin, recentemente premiato con l'oscar per il gioiellino "Little Miss Sunshine"). Se il secondo, a causa del suo scarso arrivismo, reagirà con un certa compostezza agli insulti ed alle umiliazioni, il primo ne verrà particolarmente toccato. Moss monterà una rabbia sconfinata dentro di sé, reazione naturale al timore del fallimento; rabbia che dirigerà tutta ora contro il mellifluo Williamson, ora contro il dispotico Blake, ora contro i propri colleghi o perfino contro il mondo, ma mai contro se stesso. Proprio questa rabbia sarà il suo miglior meccanismo di difesa contro l'ombra del fallimento, quell'ombra che lo divorerebbe se non efficacemente combattuta. Sì, perché Dave Moss è un arrivista, ricolmo di manie di grandezza che non può veder frustrate solo a causa di così tante circostanze sfavorevoli. Moss si ritiene incompreso dal mondo, lui, unico detentore della Verità in un deserto di ottusi incapaci.
Moss crede di essere tutto questo, ma nel profondo rimane un fallito che, nonostante tutti i propri proclami, non sembrerebbe nemmeno riuscire a porre in essere la sua ultima beffa.

Shelley Levene (un superlativo, intenso Jack Lemmon) è "La Macchina", il re dei venditori, il più grande, il migliore. O meglio, lo era: sono mesi che non riesce a vendere più come prima. Sarà l'età, sarà la stanchezza, saranno i problemi familiari, o forse i contatti che non sono più buoni come prima.
Shelley viene vessato da tutti i suoi colleghi in quanto anello debole dell'agenzia; tutti i suoi tentativi di replicare non fanno altro che renderlo ancora più patetico agli occhi di tutti, ed in fin dei conti sempre più solo nella propria disperazione.
Alla fine, però, seppur per pochi minuti, Shelley vivrà il proprio momento di riscatto: l'aver chiuso un contratto lo farà tornare ai bei tempi, quelli in cui era La Macchina, ed il suo racconto dell'impresa sarà ascoltato con ammirazione dal suo allievo Ricky Roma, il venditore migliore, il più bravo, e quell'attimo, coronato da uno sfogo nei confronti dell'odiato direttore Williamson, lo ripagherà di anni ed anni di umiliazioni. Finché il naturale epilogo della sua vicenda non lo riporterà con i piedi per terra. E forse anche un po' più a fondo.

E poi c'è Ricky Roma (Al Pacino, candidato all'oscar). Roma non è sfiorato dal fallimento, è sicuro di sé e della propria abilità oratoria. Lui è il top seller, ed in quanto tale è visto con profondo disprezzo da Dave Moss – perché l'altrui successo è sempre bilanciato dal proprio fallimento - ed ammirazione da Levene. Roma è sprezzante e tronfio, ma è capace di ammaliare un potenziale cliente percependone le debolezze, come accade al fragile James Lingk (un ottimo, manco a dirlo, Jonathan Pryce); allo stesso modo è capace di demolire i propri nemici, come fa nel celebre monologo finale contro Williamson, reo di avergli fatto perdere il contratto con Lingk a causa della sua superficialità.
Roma è però l'unico a mostrare del disinteressato piacere nell'ascoltare il racconto della vendita miracolosa di Levene, mostrandosi, in fondo eticamente migliore dei propri colleghi. La piéce teatrale originale di Mamet, però, svelava che anche quest'ultima cortesia era dettata dall'avidità di Roma, che vedeva prospettive di vantaggi economici dalla ritrovata capacità del suo vecchio maestro. Visto sotto questa prospettiva, anche il personaggio di Roma perde ogni parvenza di umanità, rientrando nel quadro di homo homini lupus che permea l'intera pellicola.

Proprio nel gioco al massacro in cui sprofondano i protagonisti che popolano il quadro desolato di "Glengarry Glen Ross" risiede l'essenza della pellicola, che sotto un cielo perennemente scuro e piovoso (solo in "Blade Runner" prima ed in "Seven" poi si vedrà un simile accanimento atmosferico) osserverà le reazioni di un manipolo di uomini – in tutto il cast non c'è un solo elemento femminile – di fronte alla prospettiva di un licenziamento. Ecco che il film diventa quindi uno spietato ritratto etologico prima ancora che antropologico, in cui ogni elemento sottoposto all'"esperimento" cerca di sopraffare il più debole, in un disperato tentativo di conservazione della propria specie. Votandosi però all'autodistruzione.

La regia di Foley, come s'è detto, mantiene un delicatissimo equilibrio tra la dimensione teatrale della narrazione e quella cinematografica, e la sboccatissima sceneggiatura di Mamet ha del miracoloso nel riuscire a legare monologhi lunghissimi a momenti di acceso interesse per le sorti dei personaggi; va però riconosciuto che "Glengarry Glen Ross" non sarebbe stato il capolavoro che è senza un simile cast. Tutti gli interpreti sono assolutamente perfetti nel dar vita ai rispettivi personaggi, immedesimandosi completamente nel disperato mondo che Mamet ha riservato loro, sottolineato da una malinconica colonna sonora jazz.
Una menzione speciale la merita però forse Jack Lemmon, cui l'interpretazione di Shelley "La Macchina" Levene ha fruttato una Colpa Volpi a Venezia. La sua maschera di dolore nelle inquadrature finali è una pugnalata, una dolorosa pugnalata.

In definitiva, "Glengarry Glen Ross" è un'esperienza necessaria.
Sofferta, ma assolutamente necessaria.

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Recensione a cura di Jellybelly - aggiornata al 11/05/2009

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