Recensione the lost city regia di Andy Garcia USA 2005
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Recensione the lost city (2005)

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locandina del film THE LOST CITY

Immagine tratta dal film THE LOST CITY

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Immagine tratta dal film THE LOST CITY
 

"The Lost City" è l'interessante esordio alla regia dell'attore cubano Andy Garcia (Andrés Arturo García Menéndez), che non si presenta soltanto nella duplice veste di attore e di regista, ma è anche produttore del film ed autore delle musiche originali.

Il film è il risultato di un progetto che Garcia coltivava fin dai primi anni ottanta. In un'intervista egli ha dichiarato che dopo aver cercato di scrivere alcuni abbozzi di sceneggiatura, che non lo soddisfacevano, un suo amico gli suggerì la lettura di un libro di Guillermo Cabrera Infante intitolato "Tre Tigri Tristi". L'incontro con Infante fu la chiave di volta del progetto. Ispirandosi al libro, i due autori hanno scritto insieme la sceneggiatura di "The Lost City" (lo script elaborato da Garcia era un lavoro di ben 306 pagine, ma dopo la collaborazione con Infante fu ridotto a 120).
A quel punto mancavano soltanto i soldi per realizzare il sogno dell'attore cubano. Per un periodo di ben sedici anni, Andy Garcia ha cercato i finanziamenti presso le case di produzione del cosiddetto cinema indipendente. Intanto la sua notorietà stava crescendo e il suo curriculum di attore si arricchiva di interpretazioni sempre più importanti. Dopo una non troppo lunga gavetta televisiva che comincia nel 1978 ed arriva al 1986, gli furono assegnati ruoli di rilievo in produzioni "importanti". Nel 1986 lo vediamo comparire al fianco di Jeff Bridges in "Otto Milioni di Modi per Morire". Il 1987 fu l'anno de "Gli Intoccabili", che, essendo diretto da uno dei migliori registi viventi ed interpretato da mostri sacri come Robert de Niro e Sean Connery, lo presentò al grande pubblico affiancando il suo nome ed il suo volto a quello dei grandi. Il primo ruolo da protagonista arriva finalmente nel 1990 con "Affari Sporchi". Nonostante che il suo astro fosse in rapida ascesa, i fondi per realizzare il suo progetto ancora non si trovavano. Questo gli ha lasciato il tempo per approfondire le letture sulla Cuba della sua infanzia continuando a coltivare e a rielaborare il proprio sogno.
Una volta trovati i fondi necessari alla realizzazione del film Garcia ha radunato un cast internazionale di alto livello, lasciando molto spazio agli attori di origine latina ai quali ha assegnato i ruoli principali, ad eccezione di quello dello scrittore senza nome interpretato da Bill Murray, di quello del fratello di don Federico interpretato dall'attore texano Richard Bradford (conosciuto da Garcia sul set de "Gli Intoccabili" dove interpretava il ruolo del corrotto capo della polizia di Chicago) e del cammeo del malavitoso Meyer Lansky interpretato da Dustin Hoffman. Troviamo la splendida attrice spagnola Inés Sastre, un redivivo Steven Bauer, che, benché abbia sempre lavorato tantissimo, in Europa non lo si vedeva in un film di rilievo dai tempi di "Traffic" (2000), il caratterista Juan Fernàndez che qui interpreta il presidente Batista, un eccellente Tomas Milian.

Dopo una gestazione tanto lunga Andy Garcia ha sorpreso per la rapidità con cui ha diretto il film: trentacinque giorni di riprese fra New York, Puerto Rico e Miami Beach.

"The Lost City" si apre con le note melodiche e malinconiche suonate da una tromba, alla quale la regia dedica un intenso primo piano. Seguono un omicidio politico, una rapida panoramica del litorale della città (è Puerto Rico che presta la propria immagine per ricostruire L'Avana degli anni cinquanta) ed uno spettacolo musicale che si svolge sul palcoscenico del nightclub di Federico Fellove, detto Fico (Andy Garcia), che si presenta con uno smoking dalla giacca bianca e una sigaretta fra le dita. Un inizio poetico che rievoca volutamente le atmosfere di Casablanca.
Subito dopo l'incipit, che appare decisamente buono e capace tanto di catturare l'attenzione del pubblico quanto di sedurre gli occhi grazie all'interessante coreografia, Garcia sembra voler abbassare immediatamente il tiro. Comincia col presentare i personaggi principali. Si tratta dei membri della famiglia Fellove, composta da don Federico (Tomas Milian), anziano professore universitario esperto di diritto costituzionale, sua fratello don Donoso (Richard Bradford), ricco proprietario terriero, i tre figli di don Federico che sono nell'ordine Fico, Luis (Nestor Carbonell), Ricardo (Enrique Murciano). Con una regia fin troppo formale, Garcia presenta i cinque uomini della famiglia durante una discussione di confronto ideologico in uno studio. La sequenza mostra Fico in piedi alle spalle del padre seduto su una poltrona che fronteggia gli altri due figli maschi seduti di faccia e don Donoso nel mezzo come una specie di arbitro-paciere. Oggetto della discussione è il desiderio e la volontà del giovane Ricardo di appoggiare le milizie di Fidel Castro per rovesciare il regime corrotto di Fulgencio Batista. Nella conversazione resta neutrale, ingenerando risentimento in Ricardo, il fratello mezzano Luis. Poco più avanti Fico, sollecitato da Aurora Fellove (Inés Sastre) moglie di Luis, scoprirà che anche quest'ultimo ha abbracciato la lotta armata contro Batista. Tuttavia, al contrario di Ricardo, Luis non appoggia Castro ed è uno dei capi della milizia armata che vuole una Cuba libera democratica e pluralista. La storia dunque non ci riserva troppe sorprese. Nella prima mezz'ora di film sembra di assistere ad una nuova trasposizione in salsa latina del classico di Ibanéz "I Quattro Cavalieri dell'Apocalisse".

Ciascun personaggio seguirà il proprio destino: Luis andrà incontro ad una morte crudele mentre Ricardo quasi per caso finirà con l'arruolarsi fra i miliziani comandati da Ernesto "Che" Guevara (Jsu Garcia).
La regia apparentemente continua a non sorprenderci. Essa rimane assai manieristica. Vi sono alcuni brevissimi giochi di soggettiva che sembrano voler promettere qualcosa che poi non viene mantenuto. Eppure in questa prima ora di film c'è già qualcosa che comincia ad insinuarsi anche se in modo un poco confuso. Garcia ricorre ad un montaggio particolarmente frammentato che inizialmente può risultare pretenzioso, ma si rivela efficace ed elegante. Inoltre la regia si manifesta già molto buona durante le numerose sequenze musicali all'interno del nightclub "El Tropico" di Fico. Una volta scoppiata la rivoluzione e caduto il regime di Batista, la regia cambia radicalmente e con essa cambia lo stesso punto di vista della pellicola. Nella prima ora si assiste ad un affresco storico e ad un dramma familiare vecchio stile, un déjà vu senza alcun guizzo creativo, ma che cela al suo interno dei piccoli semi, quasi invisibili, che germogliano e danno frutto nei rimanenti novanta minuti.
La Storia passa in secondo piano, così come le vicende dei personaggi. La rivoluzione, l'insediamento di Fidel Castro e l'instaurazione della dittatura comunista diventano poco più che uno sfondo.

Qui passa in primo piano la storia dell'amore impossibile fra Fico ed Aurora. Mentre il primo detesta l'instaurazione della dittatura comunista, che ci viene raccontata anche attraverso soprusi di varia natura, di cui certamente resterà nella memoria degli spettatori il ridicolo divieto di usare il sassofono impartito all'orchestra del locale, la donna invece abbraccia la causa castrista e, proclamata "vedova rivoluzionaria dell'anno", si avvicina alla sfere del nuovo potere politico insediatosi a Cuba con la convinzione di rendere tributo alla memoria di Luis, che invece ne risulta essere completamente violentata. Ma si badi bene: anche qui Andy Garcia, nella sua veste di regista, gioca con lo spettatore. Egli in realtà non ci racconta la storia d'amore fra Fico ed Aurora. Questa infatti non è altro che un'intelligente metafora, tutt'altro che banale, della storia di un amore impossibile fra un uomo e la propria terra. Un uomo che per poter avere la libertà di essere se stesso deve rinunciare alle proprie origini, ai propri averi e soprattutto ai propri affetti.
È emblematica la sequenza in cui un miliziano spoglia Fico di tutte le cose preziose che ha con sé, incluso l'orologio donatogli dal padre. Il soldato definisce "vermi" tutti quei Cubani che rifiutano Castro e che desiderano partire per gli Stati Uniti. Giustifica l'odioso furto, che compie in nome del regime, dicendo:
"Partono senza aver capito che non possono portare Cuba con sé".
Ma il nostro Fico ci riesce, perché la porta sempre con sé, chiusa dentro il suo cuore, viva nei suoi ricordi.

La regia abbandona quel fastidioso manierismo della prima parte e regala allo spettatore un crescendo di eleganza visiva capace di esaltare ai massimi livelli l'accuratezza dei set coadiuvata da una fotografia eccellente, anche se a tratti forse un po' troppo patinata.
Memorabile l'immagine in cui Bill Murray ed Andy Garcia si intravedono su uno sfondo nero, attraverso le veneziane socchiuse di due oblò circolari del nightclub, che, come due occhi immersi nell'oscurità e nella clandestinità, spiano il ballerino anziano de "El Tropico", ormai fatto chiudere dalla prepotenza del governo rivoluzionario, che si esibisce di fronte ad una platea vuota in una danza che nessun pubblico potrà applaudire.
Garcia introduce, grazie anche all'ausilio del montaggio, sequenze, soprattutto quelle finali, che assumono un sapore onirico. Merita anche di essere ricordata la sequenza in bianco e nero in cui alcune ragazze scendono una scalinata ed una di esse indossa la bandiera di Cuba, che è il solo elemento a colori.
Una regia personale e ben curata, che trasmette una profonda nostalgia e tanta malinconia. Eccellente anche il contrasto fra i panorami assolati e ricchi di colori di Cuba e la grigia oscurità del nevoso inverno newyorkese.
I balli e la musica, da sempre simbolo dell'anima di Cuba, primeggiano tanto sulla storia quanto sui personaggi. Ad essi Garcia ha lavorato con quella dedizione che può scaturire solo da un sentimento forte come l'amore che resta prigioniero del ricordo. La regia si trasforma in una piacevolissima coreografia, elegante e raffinata, che ci guida attraverso i ritmi, le melodie e le danze, nel cuore profondo di un mondo sensuale, vivo e pulsante, fatto di corpi velati da stoffe colorate e svolazzanti, di sguardi nascosti dietro ventagli, di amori consumati fra lenzuola leggere e tende trasparenti.
Semplicemente perfetta tutta la sequenza finale.

"The Lost City" non è un film storico né una pellicola socio-politica. È la dichiarazione d'amore di un uomo per la sua terra natale. Una amore che consuma dall'interno. È il ricordo delle proprie origini, delle proprie radici. È il rimpianto di qualcosa che si è conosciuto e che si è amato, ma che ormai vive soltanto nel ricordo. È l'amore per un mondo che si sa essere scomparso. Un mondo perduto per sempre.

"L'Avana è come una rosa" dice Fico ad Aurora. "Ha i petali ed ha le spine... tutto dipende da come tu cerchi di prenderla, ma alla fine è sempre lei a cogliere te".

Questa frase poi troverà una sua eco nella poetica dichiarazione d'amore in lingua spagnola che Garcia fa alla propria terra natia e che in questa sede appare opportuno non riportare perché, se decontestualizzata, perderebbe gran parte del proprio valore e della sua suggestione.

Interessantissimo il personaggio dello scrittore senza nome interpretato da Murray. La sua presenza, inizialmente quasi fastidiosa, risulta invece una delle introduzioni più interessanti. Le battute del suo personaggio, spesso ironiche e sarcastiche, in molteplici occasioni alleggeriscono le atmosfere, ma soltanto in modo fittizio. Infatti dietro ogni sua parola, durante qualsiasi sua apparizione, si celano dolore ed amarezza. Il suo ruolo si presta a molteplici interpretazioni, ma in questa sede non se ne offrirà nessuna. Questa scelta deriva dal fatto che il film è diretto in chiave personale e si reputa che il regista abbia anche desiderato che il pubblico recepisse emozioni e suggestioni differenti e soggettive. Quindi si lascia a ciascuno il piacere d'inquadrare secondo la propria visione questo personaggio e la sua ragion d'essere.
Fra tutte le sue battute se ne cita una piuttosto rappresentativa.
Lo scrittore, dopo aver letto sul quotidiano che non ci sarà bisogno di alcuna elezione politica perché "il popolo ha già scelto Fidel Castro", così commenta:
"Bene! Almeno così ora so per chi votare".

Le interpretazioni sono tutte di buon livello. Fra tutti spiccano Bill Murray e Tomas Milian, che ci regala davvero un'ottima prova. Molto brava anche Inés Sastre che in un film quasi tutto al maschile riesce a costruire un personaggio che, sentendosi vittima di questa supremazia sessista che sembra volerla condannare a restare nell'ombra, riesce ad assurgere al rango di protagonista. Il suo ruolo inoltre è meno semplice di quanto possa sembrare. Il personaggio di Aurora vive la scissione del proprio io fra l'essere donna innamorata, bella e sensuale, e l'essere protagonista attiva della nuova vita politica della propria terra. Come accennato, il suo personaggio è soprattutto metafora dell'isola stessa. Un posto bellissimo di cui il protagonista è innamorato, ma si trova costretto a resistere alla sua seduzione poiché quell'amore ha un prezzo troppo alto da pagare: la perdita della libertà intesa come perdita dell'io e dell'individualità di un uomo.

Può apparire simpatico, ma quasi inutile, il siparietto di Dustin Hoffman. In realtà il suo personaggio ha una certa rilevanza poiché incarna quella malavita, che aveva corrotto L'Avana trasformandola in "città del peccato" e che il protagonista rifiuta fin dal principio del film. Una malavita che di fronte al regime castrista appare non solo infinitamente più umana ed accettabile, ma anche assai più onesta e corretta.

Sono eccellenti i costumi e tutta la ricostruzione storica di Cuba della fine anni cinquanta. Vi è un solo anacronismo trascurabile, ma che si riporta per dovere di correttezza: l'Alfa Romeo guidata da Fico fu prodotta a partire dai prima anni sessanta (forse '62).

I difetti principali di quest'opera si traducono nell'eccessivo manierismo della prima ora di spettacolo e nella superficialità con cui sono tratteggiati alcuni dei personaggi. Tuttavia il difetto relativo alla regia viene egregiamente compensato e superato, come già detto, dall'eccellente capacità dimostrata da Garcia nei rimanenti novanta minuti. Inoltre il ritmo della narrazione è serrato ed incalzante, e i 143 minuti di durata trascorrono con una discreta rapidità. Il secondo difetto è superato a sua volta proprio perché il film contrariamente a quanto scritto in molte riviste del settore, non racconta la storia di una famiglia che viene travolta dai mutamenti storici, ma narra il legame profondo fra un uomo e il suo paese. Non si tratta di una storia di vicende umane, bensì di un amore custodito gelosamente nel cuore e coltivato nei ricordi di un bambino, che all'epoca dei fatti aveva cinque anni.

Andy Garcia ha realizzato un film palesemente anticastrista, che è stato anche bollato come un film violento. In realtà la regia condanna la dittatura comunista e i suoi fautori, ma non esprime mai giudizi sui personaggi. Non presenta né buoni né cattivi e non elargisce assoluzioni o condanne. Emblematiche in tal senso solo le due figure contrapposte di Ricardo e del capitano Castel (Steven Bauer). La macchina da presa non indugia mai su scene violente e, tenuto conto della storia narrata, si reputa che esse siano state accuratamente evitate, soprattutto quelle che avrebbero potuto descrivere con abbondanza e dovizia di particolari le efferatezze perpetrate dalle milizie di Castro dopo la caduta del regime di Batista.
Al regista sono già state mosse critiche ed accuse di essere eccessivamente anticastrista e di manifestare anche un sentimento troppo "anti-Guevara". È stato anche accusato di aver calcato troppo la mano nel descrivere l'esodo dei profughi cubani immediatamente dopo l'insediamento di Castro a L'Avana. Garcia ha risposto a quest'ultima accusa affermando di aver anche preso in considerazione di tagliare la scena dal film, ma di non averlo fatto perché sarebbe stato un torto verso la storia del suo Paese e verso suo padre: "un uomo che ha avuto il coraggio di lasciare il suo Paese e di portare con sé la moglie e tre bambini piccoli". (Come accennato sopra, all'epoca dei fatti Andy Garcia aveva cinque anni).
Per quanto riguarda le critiche allo spirito antirivoluzionario, il regista ha risposto che si deve avere "rispetto per tutte quelle persone che a causa di quel regime hanno sofferto e sono morte".

Inoltre in questa sede preme sottolineare che "The Lost City" è sì anche un film anticastrista, ma che la critica non è circoscritta a Castro e al suo regime, ma si estende ad ogni abuso dei poteri istituzionali, a qualsiasi violazione dei diritti e delle libertà individuali, ad ogni sopraffazione e violenza compiuta da chi esercita il potere. Si evidenzia anche come con una rivoluzione in realtà cambi poco o niente: molti muoiono, mentre chi ha guidato la rivoluzione è qualcuno che prima era escluso dall'esercizio del potere, ma che, grazie agli ideali ed al sangue degli altri, sconfigge i propri avversari per prenderne il posto.
Questa tematica, così come è trattata nel film di Garcia, riporta alla mente le parole di Fabrizio de André nella canzone che conclude l'album "Storia di un Impiegato":

"Certo bisogna farne di strada da una ginnastica d'obbedienza fino ad un gesto molto più umano che ti dia il senso della violenza, però bisogna farne altrettanta per diventare così coglioni da non riuscire più a capire che non esistono poteri buoni".

Nel complesso "The Lost City" è una buona opera prima. Trattandosi della realizzazione di un progetto coltivato per quasi tutta la vita, chissà se Andy Garcia ritornerà ancora dietro alla macchina da presa. E, nel caso lo facesse, è difficile dire se sarà in grado di realizzare un'opera migliore o di pari livello. In ogni modo questo film si è rivelato una piacevole sorpresa e se ne consiglia la visione.

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Recensione a cura di Carlo Baldacci Carli - aggiornata al 29/11/2006

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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