Recensione naked regia di Mike Leigh Gran Bretagna 1993
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Recensione naked (1993)

Voto Visitatori:   7,88 / 10 (20 voti)7,88Grafico
Miglior regia (Mike Leigh)Miglior attore (David Thewlis)
VINCITORE DI 2 PREMI AL FESTIVAL DI CANNES:
Miglior regia (Mike Leigh), Miglior attore (David Thewlis)
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locandina del film NAKED

Immagine tratta dal film NAKED

Immagine tratta dal film NAKED

Immagine tratta dal film NAKED

Immagine tratta dal film NAKED

Immagine tratta dal film NAKED
 

Il disilluso Johnny, costretto a lasciare Manchester, passa a trovare la sua ex Louise, che ormai conduce nella capitale inglese una vita noiosa e piccolo-borghese per la quale il giovane intellettuale manifesta un sarcastico disprezzo. Annoiato dal contesto e dalla sfasata coinquilina Sophie che si affezionerà a lui ottenendo solo sesso e indifferenza, Johnny lascia presto l'appartamento per cominciare uno stanco vagabondaggio per le strade di una Londra livida e fredda, culla di solitudini e malinconie, un viaggio odisseico senza però nessuna meta, sancito da incontri fugaci e dialoghi tragicomici e raffinati, che spesso son monologhi "sofisti" espressi ad interlocutori passivi, sconosciuti incontrati per caso, all'ombra di una deriva esistenziale senza ritorno.

In un film come "Naked" l'aspetto tecnico passa quasi in secondo piano; la regia di Mike Leigh è certo delicata e funzionale, perfetta nel suo mettere al centro gli attori nascondendosi dietro di essi, ma a fare la differenza è soprattutto una sceneggiatura in parte scritta durante le riprese con la collaborazione del cast, modus operandi da sempre caro al regista inglese, che regala perle di incommensurabile bellezza e poesia.
"Naked" vorrebbe essere allo stesso tempo divertente e drammatico, dolce ed amaro, grottesco e disperato, spezza la tristezza della quale è impermeato non solo grazie all'umorismo del suo protagonista ma anche utilizzando personaggi caricaturali come quello del glaciale e misogino padrone di casa o della buffa amica bacchettona di Louise che torna sconvolta dall'Africa (in questo il realismo di Leigh è ben più bizzarro rispetto a quello di altri esponenti della stessa corrente), eppure lascia addosso un tale senso di sconfitta ed impotenza da far inevitabilmente spostare i suoi equilibri verso la tragicità. Questo non è semplicemente cinema sociale, ma anche riflessione più alta sull'uomo e sulla sua condizione.

Tutti i personaggi più significativi che ruotano attorno a Johnny vorrebbero probabilmente essere altrove, in un altro luogo, in un'altra epoca, in un altro corpo, in un'altra vita; in ogni caso, altrove. A testimoniarlo semanticamente nelle loro case tutti quegli oggetti d'arredamento dei quali lui si burla, che sembrano souvenir senza valore di sogni inespressi o testimonianze di esistenze che non hanno nulla a che fare con le loro, beffardi simulacri che rimangono sullo sfondo di un'inedia e un'insoddisfazione che prendono tutto lo spazio nelle vite di rappresentanti del proletariato che si lasciano morire giorno dopo giorno e che svogliati e terribilmente soli accettano insoddisfatti la loro quotidianità per quella che è, a volte inconsapevoli della loro infelicità, altre volte indifferenti e completamente rassegnati ad essa. Quando Johnny ride di loro lo fa in realtà con sincera compassione e la sua non è una pietà soltanto nei confronti del singolo individuo ma dell'umanità tutta, che comprende ovviamente anche sé stesso. Non ha nostalgia nei confronti del passato, non ha ambizioni e prospettive per il futuro, non è interessato più a nulla che non sia un presente che però, come lui stesso spiega ad un interessato guardiano notturno, in realtà non esiste (rifacendosi presumibilmente non tanto ad Einstein e Bergson ma piuttosto ad Aristotele e Sant'Agostino), perché nel momento in cui lo si vive ci è già sfuggito via.

C'è in questo antieroe dei nostri giorni un'urgenza di comunicare che va oltre la sua apparente spocchia e che non trovando una valvola di sfogo in ascoltatori soddisfacenti lo costringe, tranne in un caso, a parlarsi addosso, citando tra gli altri James Gleick, la Bibbia, Shakespeare con mai troppo celata frustrazione. In questo pessimismo cosmico nel quale vaga tenta almeno di lasciare un segno cercando di risvegliare coscienze intorpidite, colpisce duro per risvegliare dal sonno sociale, filosofo dei bassifondi infastidito dalla mediocrità e ossessionato dall'Apocalisse, dalla fine, che sente dentro di sé e attorno a sè.

E quando viene picchiato senza motivo da un gruppetto di giovani balordi e piange come un bambino comprendiamo tutto d'un tratto quanto il suo cinismo non sia nulla in confronto a quello del mondo, in Johnny troviamo consapevolezza, cultura, ricchezza interiore, ironia, a tratti anche tenerezza, degli altri percepiamo soprattutto i loro limiti, la noia, il vuoto, la vigliaccheria, l'indifferenza. La sua boria e la sua rabbia sono soprattutto una reazione all'aridità dalla quale si sente circondato. Ecco perchè nonostante a volte sembri mettercela tutta per apparire sgradevole proprio non si riesce a non amarlo.

Precisa e toccante l'interpretazione di David Thewlis, palma d'oro a Cannes, che smunto nel suo cappotto scuro tratteggia un personaggio strafottente e fragile allo stesso tempo, anarchico e senza speranza, destinato a vagare per sempre non solo tra le strade di Londra ma anche nei cuori di chi ha amato questo film amaro e indimenticabile.

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Recensione a cura di Bambino delle Stelle - aggiornata al 02/12/2009

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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