Recensione il curioso caso di benjamin button regia di David Fincher USA 2008
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Recensione il curioso caso di benjamin button (2008)

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locandina del film IL CURIOSO CASO DI BENJAMIN BUTTON

Immagine tratta dal film IL CURIOSO CASO DI BENJAMIN BUTTON

Immagine tratta dal film IL CURIOSO CASO DI BENJAMIN BUTTON

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Immagine tratta dal film IL CURIOSO CASO DI BENJAMIN BUTTON

Immagine tratta dal film IL CURIOSO CASO DI BENJAMIN BUTTON
 

"Solo il tempo è veramente nostro! La natura ci ha dato il possesso di questa sola cosa sfuggente ed instabile".
Seneca, "Lettere a Lucillo"

Appare incredibile e non finisce mai di stupire l'incapacità del cinema hollywoodiano di rinnovarsi. Infatti, con una curiosa periodicità le case di produzione americane (in questo caso stiamo parlando della Warner Bros e della Paramount Pictures, che si sono unite per coprire il cospicuo costo di centocinquanta milioni di dollari) commissionano una storia che sia la contempo una parabola umana e un affresco storico, in grado di colpire e di sedurre il grande pubblico ingraziandosi anche i favori della critica. L'operazione è assolutamente sensata, perché quando si decide di spendere cifre colossali si deve anche avere la prospettiva più che congrua di recuperale e di realizzare anche un buon profitto. E sarebbe auspicabile che dietro una siffatta operazione commerciale si celasse anche l'intenzione di trasmettere un messaggio, sia esso filosofico o artistico o politico o anche meramente estetico. Spesso questo genere di pellicole gode di un ampio consenso di pubblico e riesce anche a portare a casa numerosi premi, fra cui i tanto ambiti Premi Oscar. Questo fu il caso, per esempio, di pellicole come "Forrest Gump" (1994) di Robert Zemeckis e vincitore di sei Premi Oscar, de "Il Paziente Inglese" ("The English Patient", 1996) di Anthony Minghella e vinitore di nove Premi Oscar, di "Titanic" (1997) di James Cameron e vincitore di undici Premi Oscar. Anche "American Beauty" (1999) di Sam Mendes e vincitore di cinque Premi Oscar, benché apparentemente differente, rientra perfettamente in questo contesto sia per alcune analogie strutturali, sia per tecnica produttiva. Vi ha provato senza successo anche uno dei migliori autori contemporanei, Martin Scorsese, prima con "Gangs of New York" (2002) e poi con "The Aviator" (2004). E anche Steven Spielberg ha percorso questa strada con "Prova a Prendermi" ("Catch Me if you can", 2002). Tuttavia, dopo il 2000 qualcosa è cambiato. Forse è stato a causa dei fatti dell'undici settembre 2001, forse è stato a causa delle traversie politiche, economiche e sociali che si sono abbattute sugli Stati Uniti e sul mondo intero. Fatto sta che l'Academy ha incominciato a premiare film di tipo differente, meno indulgenti e meno ottimisti. Si ricordi per esempio che "Forrest Gump" gareggiava nella corsa agli Oscar con "Pulp Fiction", pellicola decisamente meno buonista, che uscì dal confronto ampiamente sconfitta nonostante sia un film talmente incisivo da aver influenzato la cinematografia mondiale e da esser stato capace di modificare la concezione stessa di un certo tipo di cinema. Negli ultimi anni hanno trionfato film più asciutti, più duri e intimamente pessimistici come "Mystic River" (2003) e "Million Dollar Baby" (2004), entrambi di Clint Eastwood, senza dimenticarci di "Crash" (2004) di Paul Higgins e di "Non è un Pese per Vecchi" ("No Country for Old Men", 2007) di Joel e Ethan Coen.

Dopo anni che Hollywood non produceva più una biografia romanzata o un affresco storico magniloquente, la Warner Bros e la Paramount Picture hanno deciso di provare a ripercorrere quella strada, così premiata negli anni novanta sperando di riuscire a ritrovarne i fasti.

Questa premessa potrebbe tuttavia essere fuorviante e portare a crede che "Il Curioso Caso di Benjamin Button" nasca come semplice conseguenza di quanto esposto sopra. In realtà così non è. Si tratta di un progetto che è stato coltivato per quasi quarant'anni, prima in via semplicemente ipotetica, poi, a partire dal 1994 con maggior serietà.

"Il Curioso Caso di Benjamin Button", infatti, è tratto dall'omonimo racconto di Francis Scott Fitzgerald contenuto nella raccolta "Racconti dell'Età del Jazz", del 1922. L'idea di farne una trasposizione cinematografica è sempre piaciuta e molti autori l'hanno presa in considerazione a partire dagli anni sessanta. 1

Le ragioni per cui questo soggetto fu sempre accantonato o rinviato erano principalmente due: l'eccessiva onerosità economica e le oggettive difficoltà di realizzazione.

Nel 1994 il Maryland Film Office di Jack Gerbes si interessò ad un possibile adattamento del racconto di Fitzgerald soprattutto perché questo è ambientato nella città di Baltimora. Fu così che vari autori fra cui anche Steven Spielber si interessarono al progetto, ma nei successivi quattro anni non fu realizzato niente di concreto, fin quando nel 1998, Robin Swicord ne scrisse una prima sceneggiatura da cui partì un progetto cinematografico che vedeva Ron Howard alla regia e John Travolta nel ruolo del protagonista. Tuttavia, il film non venne alla luce e nel 2000 la Paramount Pictures ne acquistò i diritti e avviò un nuovo progetto. Vari autori scrissero differenti adattamenti e sceneggiature nessuna delle quali sembrava essere soddisfacente. Poi nel 2003 lo sceneggiatore Eric Roth, già vincitore di un premio Oscar per "Forrest Gump" e vincitore di numerosi altri premi cinematografici, scrisse un nuovo adattamento della storia di Fitzgerald rielaborandola e trasportandola ai tempi moderni. A questo punto intervenne anche la Warner Bros e fu avviato il progetto che ha partorito la pellicola diretta da David Fincher.
Prima di procedere con questa analisi si avverte il lettore che quanto segue potrebbe anche se solo in minima parte, sciupare la visione del film, quindi se ne sconsiglia la lettura a quanti ancora non lo avessero visionato, anche se è il caso di sottolineare che tutti coloro, che hanno visto il trailer italiano della durata di circa due minuti e mezzo, hanno già assistito ad una sinossi fin troppo dettagliata dell'intero film, dal principio alla fine.

Si avverte altresì il lettore che, poiché chi scrive ha visto il film in lingua francese, le citazioni riportate potrebbero non corrispondere letteralmente a quelle dei dialoghi italiani.

"Il Curioso Caso di Benjamin Button" racconta la storia di un uomo che nasce vecchio e che anziché crescere come ogni normale bambino, comincia a ringiovanire. L'intera pellicola altro non è che l'autobiografia raccontata dallo stesso protagonista.

Se l'idea può apparire assolutamente originale, altrettanto non può dirsi del modo in cui è stata sviluppata.

La costruzione della storia è di una linearità stupefacente e di una banalità a tratti disarmante.

Lo spettatore si trova davanti ad una donna molto anziana e morente, distesa in un letto d'ospedale, mentre fuori infuria una tempesta. Al capezzale della vecchia c'è sua figlia Caroline (Julia Ormond) cui la madre affida la lettura di un diario scritto da un certo Benjamin.

Non si meravigli il lettore se questa struttura narrativa dall'impianto classico gli appare nota, vista per esempio nel film "Titanic", perché ha assolutamente ragione di pensare di averla già vista: si tratta di un cliché logoro e abusato.

Ma, direte voi, perché non utilizzare una costruzione narrativa lineare e semplice quando poi si vuole raccontare una storia incredibile e straordinaria, quindi complessa nei contenuti e potenzialmente ostica nella sua esposizione?

Il quesito è sensato e l'incipit del film sembrerebbe anche seguire questa linea concettuale.

Infatti, i primi minuti di film sono spettacolari e affascinanti. Si narra la storia di Monsieur Gateau (interpretato dall'ottimo Elias Koteas) un orologiaio cieco che perde il suo unico figlio durante la Grande Guerra, ma l'uomo non smette di lavorare e decide di terminare l'ultimo lavoro che gli è stato commissionato: l'orologio della stazione ferroviaria della città. Egli termina l'opera, ma al momento dell'inaugurazione l'orologio incomincia a scandire i minuti in senso contrario. Un errore, si domanda il pubblico intervenuto, ma l'orologiaio dichiara di aver montato intenzionalmente gli ingranaggi in senso inverso perché se fosse stato possibile far andare il tempo all'incontrario così come le lancette del suo orologio, allora suo figlio non sarebbe mai morto sul campo di battaglia. Dopo aver consegnato l'orologio, Monsieur Gateau scompare dalla scena pubblica. Alcuni dicono che sia partito per mare. E l'ultima volta che noi lo vediamo è mentre rema verso il nulla a bordo di una barca circondata dalle acque.

Non occorre un'analisi approfondita per comprendere fin da subito che questo incipit altro non è che una tesi che sarà confermata oppure smentita durante il corso del film.

Il teatro dell'azione è New Orleans e la pellicola prende avvio proprio quando il temibile uragano Katrina è alle porte. Questa scelta di traslare l'azione da Baltimora a New Orleans è stata ben integrata con la storia narrata, ma la sola ragione che ha indotto gli autori a compiere questa modifica risiede negli incentivi economici disposti dal piano di risanamento della città dopo la devastazione prodotta dall'uragano Katrina.
La struttura narrativa di "Benjamin Button" è analoga a quella di alcuni dei film citati quali "Titanic" e "Forrest Gump", ma se si va più indietro si potrebbe anche ricordare pellicole come "Piccolo Grande Uomo" ("Little Big Man", 1970) di Arthur Penn o "Il Grande Impostore" ("The Great Impostor", 1961) di Robert Mulligan e, volendo, quasi qualsiasi racconto biografico. Abbiamo una persona anziana che fa scoprire ad una persona più giovane la storia del protagonista attraverso la lettura di un diario scritto da questi; abbiamo la voce fuori campo del protagonista che ci accompagna per quasi tutta la durata del film, alternandosi solo in alcuni casi a quella della coprotagonista; abbiamo un racconto biografico che attraversa varie epoche e che racconta accadimenti storici attraverso la narrazione della microstoria; abbiamo una parabola umana che predica il valore della vita, sia come essa sia, e delle infinite possibilità che il destino può riservare ad ogni essere vivente, nel bene e nel male; vi sono sprazzi d'ironia, sprazzi di romanticismo e un po' di malinconia. Insomma, una miscela ormai ben collaudata e di sicura efficacia, ma niente di nuovo né di innovativo.

È evidente, dunque, che "Benjamin Button" non presenta nessuna originalità nella sua struttura narrativa. È un film dall'impianto strutturale classico, senza nessun estro creativo. Come accennato, se questa costruzione narrativa fosse stata finalizzata all'esposizione di una storia particolarmente complessa e complicata, avrebbe potuto essere un pregio. Purtroppo però anche la storia è assai semplice e banale. Infatti, persa l'originalità dello spunto di partenza, lo spettatore si trova di fronte ad una biografia del tutto lineare dove un uomo nasce, cresce, fa le sue prime scoperte, matura le proprie esperienze, vive i propri amori e i propri dolori e infine muore come ogni altro essere vivente.

Quante volte abbiamo sentito dire che i vecchi sono come dei bambini? Inizialmente è bizzarro e divertente vedere il "vecchio" Benjamin giocare come un bambino, ma poi lo vediamo ringiovanire, raggiungere man mano la normalità e la storia assume una connotazione del tutto ordinaria. I punti in comune fra i vecchi e i bambini sono molteplici: una ridotta capacita motoria e sensoriale, una ridotta capacità cerebrale, i difetti della memoria, un forte egocentrismo, la mancanza di pazienza, l'instabilità emotiva. Ciò che avrebbe dovuto essere straordinario assume pressoché immediatamente i caratteri dell'ordinario. Se gli autori avessero giocato maggiormente sulla tematica di un uomo vecchio imprigionato in un corpo troppo giovane (argomento trattato con grande ironia e con intelligenza pungente da Howard Hawks e da Ben Hecht nel film "Il Magnifico Scherzo" ("Monkey Business", 1952) dove però si schernisce il mito dell'eterna ricerca di una perpetua giovinezza) forse il film avrebbe acquistato un maggior valore narrativo. E invece niente. È come se gli ultimi trent'anni di vita del protagonista fossero scevri di qualsiasi interesse, quando invece essi avrebbero davvero potuto essere i più affascinanti e i più peculiari da descrivere. Che cosa potrebbe davvero fare un uomo che ha maturato l'esperienza di una vita, ma che ha l'incredibile chance di avere il corpo di un ventenne o di un trentenne? Questo sarebbe stato il quesito più interessante da analizzare e da sviluppare. Certo, avrebbe richiesto un vero sforzo di fantasia, cosa che in linea di principio sembra difettare agli autori di questo film.

Tutta questa tematica viene liquidata con un brevissimo dialogo fra Daisy e Benjamin durante uno dei loro ultimi e fugaci incontri:
"Sei così giovane!", dice lei.
"Solo esteriormente", risponde lui.

È assolutamente un peccato, non ci stancheremo mai di ripeterlo, che, pur partendo da uno spunto originale, la storia vada a perdersi nei meandri della più bieca ordinarietà.

Ora, se si vuole accantonare questo inganno procurato dagli autori e se si desidera rapportarci a "Benjamin Button" come alla storia di un uomo nato con un particolare handicap e che decide ugualmente di affrontare la vita, è il caso di affermare che questo film è un prodotto di alto livello. La storia ha la struttura di un qualsiasi altro Roman d'Apprentissage ed è narrata con una straordinaria delicatezza. Inoltre, le atmosfere e i contenuti hanno una alone di fiaba, che permette allo spettatore consenziente di calarsi all'interno della storia di Benjamin Button e di lasciarvisi trasportare senza nessuna pretesa di veridicità. In tal senso, anche se con minor clamore, questo film è assimilabile a "Big Fish" di Tim Burton, ma laddove quest'ultimo è un elogio perpetuo della fantasia e della straordinarietà del quotidiano, "Benjamin Button" vuole essere più una parabola sul destino e sulle opportunità che la vita offre.

È inutile andare ad analizzare i singoli passaggi narrativi, poiché essi sono analoghi a quelli di qualsiasi altra opera biografica. Al pubblico non sarà risparmiato neppure il cliché del giovane che affacciandosi alla vita scopre il sesso in un bordello. Si ricordi che siamo alla fine degli anni trenta. Tuttavia, questo cliché è usato con intelligente ironia. Infatti, non può non strappare un sorriso l'immagine del vecchietto che esce dalla camera della prostituta, che lo ringrazia e lo invita a ritornare al più presto. Si tratta di un sorriso preconfezionato, di una furberia (una delle tante) compiuta durante la stesura della sceneggiatura, ma pur sempre gradevole.

Quello che preme evidenziare maggiormente in questa analisi sono i messaggi che gli autori sembrerebbero voler trasmettere al pubblico. Avendo essi scelto di raccontare la storia di Benjamin in forma di fiaba, non potevano certo sottrarsi alla regola secondo cui questo genus narrativo è nato per trasmettere all'auditore un contenuto morale, formativo e allegorico.

"Le nostre vite sono determinate dalle opportunità, anche da quelle che ci lasciamo sfuggire".

Questa frase è la summa del modo che il protagonista ha di rapportarsi alla vita. Esposto in altri termini, il messaggio sotteso è evidente ed è la sintesi della locuzione latina del poeta Orazio, contenuta nelle "Odi": Carpe Diem!

Infatti, non importa (sempre secondo il messaggio esposto dagli autori) quello che abbiamo davanti a noi; non importa essere giovani o essere vecchi; non importa sapere dove conduce la strada che stiamo percorrendo. Quello che conta è essere capaci di vivere l'oggi nel migliore dei modi possibili, liberi dal passato e senza guardare al futuro, perché solo il presente è reale, soltanto il presente è l'opportunità che la vita ci sta offrendo.

Questo messaggio viene anche ulteriormente rafforzato dalla storia del personaggio di Elizabeth Abbot (Tilda Swinton) il cui traguardo nella vita era quello di attraversare a nuoto lo Stretto della Manica. Obiettivo che in gioventù non è stata capace di raggiungere, ma che riesce poi a coronare in tarda età. Ulteriore argomentazione finalizzata a sostenere che la volontà e la capacita di vivere il quotidiano sono superiori a qualsiasi altra avversità.

Questa argomentazione viene poi parzialmente contraddetta dal fatto che quando Daisy partorisce Caroline, Benjamin comincia ad avvertire il peso del proprio handicap.
"Caroline ha bisogno di un padre, non di un compagno di giochi".
Con questa motivazione Benjamin lascia la compagna e la figlia. In precedenza Daisy gli aveva domandato se lui avrebbe ancora potuto amarla quando lei fosse divenuta vecchia e rugosa e Benjamin le aveva risposto:
"E tu potrai ancora amarmi quando sarò giovane e col viso coperto dall'acne? Quando mi nasconderò spaventato sotto il letto o quando bagnerò il materasso?"

Quella che precedentemente era apparsa come una consapevolezza amara, esorcizzabile con l'ironia, assume dunque un connotato insormontabile. E la sintesi di questo è in un altro dialogo intercorso fra Daisy e Benjamin:
"Stavo pensando che nella vita niente dura per sempre e che questo è un gran peccato", dice lui.
"Alcune cose durano", risponde lei.

Nel film sarà l'amore fra i due a durare dal loro primo incontro fino al loro ultimo respiro, mentre sarà la carne ad essere corrotta dal tempo, tanto in un senso quanto nel senso inverso.

"Adesso abbiamo quasi la stessa età... Ci incrociamo a metà strada", dice Daisy.
E qui è ancora il presente a trionfare. È l'attimo, quell'intersezione fra due vite che sai essere in realtà fugace, effimera, destinata a scomparire.

Poetica e simbolica in questa accezione è l'immagine in cui Benjamin affianca Daisy mettendo entrambi davanti allo specchio e dicendo:
"Io voglio ricordarci così, come siamo adesso".

Da questa impostazione risulta già evidente come vecchiaia ed infanzia siano assimilate. Come detto sopra, ma giova ripeterlo, tanto i bambini quanto gli anziani hanno problemi di incontinenza e hanno bisogno di qualcuno che si occupi di loro. Nulla cambia nel fatto che Benjamin nasca e muoia in un gerontocomio, perché sia alla sua nascita, sia alla sua morte, egli sarà protetto dalle braccia di una donna amorevole che si prende cura di lui. In tal senso le tre scene più significative del film sono quella che vede Benjamin bambino vecchio nascondersi sotto un tavolo al lume di candela insieme a Daisy bambina, quella in cui Benjamin vecchio ma esteticamente ormai molto giovane fa di nuovo l'amore con una Daisy sfiorita e, infine, la scena in cui Daisy ormai vecchia lo culla come un bambino (si ricordi che nel corpo è un bambino, ma è anche un vecchio di oltre ottanta anni).

La seconda tematica è un corollario di quanto esposto finora ed è sempre legata al passare del tempo e ai cambiamenti che esso opera in noi.

Cantava Fabrizio de André:
"Vola il tempo lo sai che vola e va, forse non ce ne accorgiamo, ma ancora più del tempo che non ha età, siamo noi che ce ne andiamo".
Il tempo assume una connotazione bizzarra e irrilevante. Come nei versi di De André, il tempo in "Benjamin Button" diventa un qualcosa, più che di sfuggente, di inesistente. Non è il tempo a influenzare le nostre vite, ma la percezione che ogni singolo individuo ha di esso.
"È strano ritornare a casa. Lo stesso aspetto, gli stessi odori, le stesse atmosfere. Ti rendi conto che quello che è cambiato sei tu".
Questo apre la strada alla terza tematica: il destino.

Benjamin giunge alla conclusione che tutto nella vita è predeterminato, perché basterebbe una piccola cosa, un dettaglio, anche un solo alito di vento a cambiare il corso delle cose.

La sequenza che esprime in modo più lapalissiano questa concezione è anche la sequenza forse più bella di tutto il film. Si tratta di quando la voce fuoricampo di Benjamin accompagna le immagini degli eventi che preludono all'incidente di cui resta vittima Daisy. Da essa trasuda tutta l'inesorabile casualità degli eventi e l'assoluta incapacità dell'essere umano di predeterminare e di controllare la propria esistenza. La vita, come dice più o meno la voce fuori campo del protagonista, altro non è che una serie di intersezioni, di incontri e di scontri, assolutamente imprevedibili e totalmente fuori controllo. Tuttavia questa casualità non assume una connotazione negativa, ma positiva, poiché sembra che qualsiasi cosa accada sia comunque la migliore che poteva accaderti. Questa impostazione concettuale è già stata esplicitata con fermezza dalla citata frase sul concetto di opportunità e sul fatto, ripetuto all'infinito dalla madre adottiva del protagonista, che nessuno può sapere che cosa la vita gli riserverà.

La morale sottesa è indiscutibilmente positiva e profondamente teista nell'affermare la predeterminazione degli eventi e l'esistenza di una sorta di innata bontà che guida l'essere umano, attraverso meccanismi spesso incomprensibili e che in principio potrebbero essere ritenuti delle disgrazie, verso il suo migliore e più felice destino.

La mano di Eric Roth è evidente. Le analogie con "Forrest Gump" sono tantissime. Addirittura i dialoghi sono quasi identici, infatti non c'è nessuna differenza fra ciò che dice la madre di Forrest:
"La vita è come una scatola di cioccolatini: non sai mai quello che ti capita".
E ciò che dice la madre adottiva di Benjamin:
"Nella vita non sai mai che cosa c'è in serbo per te".

E se questa è la frase forse più evidente, si può tranquillamente affermare che ve ne sono molte altre, al punto che non sarebbe troppo inverosimile affermare che Benjamin Button è il nuovo Forrest Gump.
Al di là di tutto questo la sceneggiatura di Roth è molto ben scritta, ma, è proprio il caso di dirlo, e ci mancherebbe altro!

Certamente da uno sceneggiatore di tali capacità (si ricordi che oltre che del già citatissimo "Forrest Gump", Eric Roth è autore di film come "The Insider" (1999) e "Alì" (2001) entrambi di Michael Mann, "Munich" (2005) di Steven Spielberg, "The Good Shepherd" (2006) di Robert De Niro) ci si sarebbe aspettato qualcosa di più e, soprattutto, che avesse attinto un po' meno ai suoi lavori precedenti fra cui anche il finora non citato "L'Uomo che Sussurrava ai Cavalli" ("The Horse Wisperer", 1998) di Robert Redford.

Lasciando stare, ma solo per il momento, il lavoro di Eric Roth, passiamo ad analizzare il lavoro compiuto dal regista.

David Fincher ha già dimostrato in passato di essere un autore dalla tecnica invidiabile. Ha regalato al pubblico realizzazioni eleganti e virtuose, capaci di esaltare al massimo tanto le atmosfere quanto la storia narrata. La sua tecnica negli anni non poteva che maturare e migliorare ancora.

Con "Il Curioso Caso di Benjamin Button" Fincher ci offre un'altra grande dimostrazione delle proprie capacità. La sua regia è molto semplice, scevra di virtuosismi e assolutamente confacente alla linearità della storia narrata. Si tratta in assoluto della sua regia più formale e meno virtuosa, ciononostante egli non manca di regalare al pubblico alcune perle quali la realizzazione di tutta la sopraccitata sequenza che descrive l'incidente di Daisy, oppure dello scontro navale fra il rimorchiatore Chelsea ed il sottomarino tedesco. Fincher riesce anche ad esaltare i momenti visivamente più poetici della pellicola. Sono molto eleganti le scene di danza ed assolutamente sublimi nella loro delicatezza tutte le scene in cui Daisy accarezza il volto di Benjamin, sia esso vecchio e rugoso o bello e dalla pelle liscia e luminosa.

Fincher, alternando continuamente riprese che salgono dal basso verso l'alto e viceversa, trascina lo spettatore all'interno del proprio film e lo rende incredibilmente partecipe, contribuendo così in larga misura a valorizzare e a rafforzare l'impianto fiabesco del racconto.

È assolutamente favolosa tutta la narrazione della storia dell'orologiaio cieco, valorizzata tanto dalla pellicola sgranata e graffiata quanto dalle inquadrature assorbenti dell'orologio le cui lancette scandiscono il tempo in senso inverso.

Nel complesso della sua semplicità, la regia di David Fincher è da ritenersi superba.
La fotografia di Claudio Miranda è elegante e sublime. Benché abbia collaborato in quasi tutti gli altri film diretti da Fincher, questo è il primo film del regista in cui Miranda è assurto al ruolo di direttore della fotografia. Promosso a pieni voti.

Sugli attori c'è poco da dire: sono perfetti. Nessuno di loro cade mai in un impasse di soprainterpretazione, nessuno è mai fuori dalle righe.

Brad Pitt è molto bravo. Si consideri anche che per interpretare Benjamin nei primi anni di vita, ossia quando è incredibilmente vecchio, è stato coadiuvato, oltre che dal trucco (una sessione giornaliera di circa cinque ore) e dalla tecnica Motion Capture, da altri tre attori che sono: Peter Donald Badalamenti, Robert Towers, Tom Everett.
Cate Blachett è semplicemente favolosa. Bella, elegante, e sensuale come non è mai stata, offre al pubblico una magnifica interpretazione. Sa essere giovane e sa essere vecchia, sa essere forte e sa essere dolce e delicata, sa essere romantica e sa essere disillusa, sa essere amante e madre allo stesso tempo.
Tilda Swinton è elegante e impeccabile.
Ottimo l'intero cast.

Ritorniamo adesso alla sceneggiatura di Eric Roth.
Essa è la parte più debole del film. Senza ripetere quanto già evidenziato, i principali difetti della sceneggiatura sono costituiti dalla sua mancanza di contenuti e da dei dialoghi, che per quanto ben scritti, sono già stati ascoltati in altri film. Si tratta di un lavoro eccessivamente formale e infarcito di cliché, di furberie e di banalità. Si pensi alla sequenza del santone che deve aiutare Benjamin a camminare o al ritornello dell'uomo che è stato colpito sette volte dal fulmine, alle figure preconfezionate come quella del comandante del rimorchiatore e quella della madre adottiva del protagonista. Tutto è studiato per indurre il sorriso, la malinconia e la lacrimuccia sempre al momento giusto, seguendo un sapiente andamento crescente e discendente. Il tutto volto naturalmente ad ingraziarsi il consenso di una fetta di pubblico il più ampia possibile. Consenso che, non ne dubitiamo, sarà prontamente accordato.
Se la sceneggiatura fosse stata scritta con un poco meno di forma, con molta meno furberia, con più fantasia creativa e con più cuore, questo film avrebbe potuto essere davvero un capolavoro.

Un discorso a parte merita la scena conclusiva del film: quando ormai l'uragano Katrina ha scatenato la propria furia, vediamo l'acqua raggiungere il famoso orologio costruito da Monsieur Gateau. Questa scena si ricollega alla scena in cui abbiamo visto l'orologiaio in barca in mezzo al mare. L'orologio si ricongiunge col suo creatore. È la fine della fiaba. È la fine della Storia. L'acqua è vita. L'acqua è morte. L'alfa e l'omega. L'acqua ritorna ed inghiotte ogni cosa.
"Il Curioso Caso di Benjamin Button" è un film dall'impianto strutturale classico e dallo schema narrativo semplice. È un'opera ricca e sontuosa nella forma, ma povera nei contenuti. Regala intrattenimento, piacere per gli occhi, eleganza e poesia. Ha un forte valore estetico, ma manda messaggi banali, scontati, furbi e sostanzialmente falsi.

È vero che la vita è imprevedibile. È vero che, come diceva Seneca, tutto quello che possediamo è solo un determinato lasso di tempo. È giusto cercare di vivere al meglio ogni istante che la vita ci concede.

È solo parzialmente vero che, seguendo il paradosso di Benjamin Button, l'origine a la fine di un'esistenza si assomigliano e che quindi quello che conta sta nel mezzo; In Medio Stat Virtus, diceva il poeta latino Orazio (forse un poeta particolarmente caro a Eric Roth?).

È bello lasciarsi trasportare nella dimensione fiabesca della storia che ci viene raccontata e perdersi nella sua dimensione estetica, ma è anche bene non dimenticare le parole di un interessante scrittore ecuadoriano che, volendo, possono essere rievocate dalla sopraccitata immagine conclusiva di questa pellicola:

"La vecchiaia è un'isola circondata dalla morte"
Juan Montalvo, "Della Bellezza"


1 Per dovere di completezza si riporta una notizia recentemente apparsa sui quotidiani secondo cui Adriana Pichini, autrice di un romanzo inedito intitolato "Il Ritorno di Arthur all'Innocenza" depositato alla SIAE nel 1994, avrebbe intentato una causa per plagio contro gli autori de "Il Curioso Caso di Benjamin Button", sostenendo che questo non sia tratto dal racconto di Fitzgerald, ma dal suddetto romanzo che all'epoca fu inviato negli Stati Uniti in cerca di un editore. Non avendo letto il romanzo in questione, chi scrive, pur confermando che se il film è stato tratto dal racconto di Fitzgerald si tratta davvero di un adattamento molto, ma molto libero, si rimette pazientemente alla decisione del tribunale che valuterà l'attendibilità o meno dell'accusa, anche se per esperienza si sa che spesso questi casi vengono risolti con la formula secondo cui entrambi gli autori si sono inspirati ad una fonte comune certa (nel caso specifico il racconto di Fitzgerald).

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Recensione a cura di Carlo Baldacci Carli - aggiornata al 13/02/2009

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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