Recensione giustizia privata regia di F. Gary Gray USA 2009
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Recensione giustizia privata (2009)

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locandina del film GIUSTIZIA PRIVATA

Immagine tratta dal film GIUSTIZIA PRIVATA

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Immagine tratta dal film GIUSTIZIA PRIVATA

Immagine tratta dal film GIUSTIZIA PRIVATA
 

"È inutile opporsi al destino".

Parole dure ed inesorabili quelle pronunciate da Clarence Darby (Christian Stolte).

Gli Shelton stanno vivendo una serena serata in famiglia. Una bambina sta facendo una collana per sua madre, che è in cucina a preparare la cena, mentre Clyde (Gerard Butler) sta terminando un lavoro di elettronica. La cena è pronta quando Clarence Darby e Rupert Ames (Josh Stewart) irrompono in casa Shelton. Darby colpisce Clyde con una mazza da baseball, gli lega le mani e gli sigilla la bocca con del nastro adesivo, mentre il compagno incomincia a infilare in un sacco i soprammobili che gli capitano a tiro. Non pago di averlo tramortito ed immobilizzato, Darby pugnala Clyde all'addome e, sotto il suo sguardo disperato, pugnala e stupra la moglie per poi dedicarsi completamente alla figlia. Il solo sopravvissuto alla tragedia è Clyde che durante un faccia a faccia con il sostituto procuratore Nick Rice (Jamie Foxx), si vede negare la giustizia reclamata poiché, a detta di Rice, le prove sono contaminate e la sola testimonianza valida in possesso della pubblica accusa e quella di Clarence Darby contro Rupert Ames. Quest'ultimo quindi riceverà la condanna alla pena capitale, ma Darby, in cambio della propria testimonianza, patteggia cavandosela con qualche anno di prigione.

Il nuovo film diretto da F. Gary Gary parte da uno dei cliché più classici della cinematografia di genere, ma anziché muoversi sulla falsa riga del classico giustiziere, riserva al pubblico una serie di ingegnosi ed accattivanti colpi di scena, capaci da soli di sviluppare in modo originale una tematica spesso abusata. È inutile citare l'infinità di pellicole che hanno affrontato il tema della giustizia privata, da cui il titolo italiano del film, compiuta dal cittadino dopo essere stato deluso e tradito dalle Istituzioni in cui ha sempre confidato e per il cui mantenimento ha pagato le tasse. In questo senso "Giustizia Privata" non aggiunge nessun contenuto psicologico o sociale innovativo rispetto alla cinematografia che lo ha preceduto. L'originalità di questo film, da cui discende anche il successo di pubblico riscosso, risiede nel suo profilo narrativo.
Il merito va alla sceneggiatura del bravo Kurt Wimmer, già autore fra gli altri di "Equilibrium" (2002), di cui ha firmato anche la regia, e de "La Regola del Sospetto" ("The Recruit", 2003), oltre che dell'adattamento dal romanzo di Crichton "Sfera" (1998) e del remake de "L'affare Thomas Crown" (1999, intitolato in Italia "Gioco a Due").
Con scene veloci e dialoghi eloquenti, la sceneggiatura offre al film un ritmo coinvolgente, che trascina lo spettatore nella spirale di un storia improbabile, ma assolutamente avvincente, rovinata da un disgustoso finale voluto dalla produzione ed all'insegna del solito rovinoso politically correct. I personaggi sono ben caratterizzati ed intriganti. Con poche battute Wimmer delinea il profilo del raccapricciante sostituto procuratore Nick Rice. Questi è arrivista e abietto. Si finge un disilluso operatore di giustizia costretto a muoversi all'interno di un sistema imperfetto, ma la sola cosa che gli preme è prendere il posto del procuratore distrettuale e salvaguardare la sua non modesta percentuale del 96% di vittorie giudiziali conseguite. Per mantenerla integra è disposto a scendere a patti con i delinquenti e a cercare di persuadere un uomo affranto dal dolore di una perdita ingiusta, perversa e violenta, che egli ha fatto la cosa più giusta. I primi dieci minuti di "Giustizia Privata" racchiudono un'intensità narrativa e una scrittura sapiente come raramente si può riscontrare nei film di genere.
L'incipit del film e il personaggio di Nick Rice sono funzionali alla costruzione di un cliché narrativo che poi si vuole disattendere, conducendo lo spettatore in territori meno conosciuti. Per ottenere questo risultato, il personaggio di Clyde Shelton è costruito con altrettanta sapienza, ma presentato sempre attraverso un velo di ambiguità volto a proteggere la sua vera identità, le sue capacità e i suoi scopi più intimi. L'architettura narrativa a questo punto si trova a metà strada fra "Il Giustiziere della Notte" ("Death Wish", 1974) di Michael Winner e "Il Caso Thomas Crawford" ("Fracture", 2007) di Gregory Hoblit, senza scordarci di "V Per Vendetta" (2005) di James McTeigue.

Avvertendo il lettore che quanto segue rivela, anche se non nel dettaglio, alcuni dei principali colpi di scena della pellicola incluso il suo finale, andiamo ad analizzare meglio "Giustizia Privata" evidenziando anche quello che non funziona a livello narrativo.

Per prima cosa abbiamo detto che si tratta di una storia improbabile.
Questo aggettivo si rivolge innanzitutto al tipo di sopruso giudiziario da cui prende avvio l'intera vicenda. Risulta improbabile appunto che Rupert Ames, che non si è macchiato né di stupro né di omicidio, non testimoni a propria volta contro Darby fornendo alla pubblica accusa le prove di cui avrebbe bisogno. È altrettanto improbabile che si reputi inammissibile la testimonianza di Clyde Shelton, il solo sopravvissuto alla strage. Questo impasse narrativo può essere superato in due modi.
Il più semplice consiste nella cosiddetta sospensione dell'incredulità, grazie alla quale la storia, per quanto improbabile, è nel complesso plausibile e divertente.
Il secondo richiede invece un'analisi più fantasiosa. Partendo dal presupposto che il finale del film sia stato dettato verisimilmente più da ragioni produttive che dalla volontà dell'autore, che nelle sue opere passate ha sempre dimostrato una certa insofferenza e un certo disprezzo per le istituzioni, potremmo dire che egli non ami particolarmente il personaggio di Nick Rice. Quindi se consideriamo più analiticamente l'incipit del film, notiamo come in realtà non ci si trovi di fronte a nessuna vera ingiustizia giudiziaria. È Nick Rice a scegliere il patteggiamento, la via più facile per chiudere in fretta il caso, infischiandosene se è sceso a patti col criminale maggiormente responsabile. È vero che Rice lamenta di essersi trovato davanti al giudice Burch (Lara Corley), reputata essere intimamente garantista dei diritti civili degli imputati. Questa tuttavia appare più una scusa per giustificare un lavoro, quello degli inquirenti, mal svolto.
È sempre Nick Rice a dire a Shelton che la sua testimonianza non sarebbe attendibile e che, in sede di giudizio, la difesa dell'imputato lo farebbe a pezzi. Non interpella, dunque, la vittima del reato, ma la mette di fronte al fatto compiuto della scelta del patteggiamento.
In conclusione Nick Rice è un mostro e non è meno colpevole di un uomo come Darby, ma a differenza di quest'ultimo egli si ammanta della rispettabilità presunta discendente dall'esercizio di un potere istituzionale.
In quest'ottica l'impasse narrativo è totalmente superato, ma allora l'evoluzione narrativa va a cozzare proprio con il pessimo finale istituzionalista. Si potrebbe malignare che Kurt Wimmer, costretto a scrivere un finale che non amava, si sia preso gioco della produzione attraverso una costruzione narrativa intelligente, ma sussurrata e camuffata. È inutile dire che tutte le scene di vita familiare di Rice sono funzionali ad una umanizzazione e a una normalizzazione del suo personaggio, ma è anche vero che i mostri sono sempre solo degli esseri umani. Ci si rattrista comunque che lo stoico procuratore non subisca una fine analoga a quella di Darby e si lascia allo spettatore l'onere di scegliere in che cosa credere e per chi parteggiare.

Kurt Wimmer, oltre alla vendetta del cittadino contro le istituzioni, affronta parallelamente anche un'altra tematica meno evidente: l'esercizio della violenza come unico antidoto al torpore istituzionale.
In "Giustizia Privata" ("Law Abiding Citizen", che letteralmente significa cittadino rispettoso della legge), infatti, nessun personaggio si scandalizza particolarmente fin quando Shelton si vendica di chi gli ha massacrato la famiglia. Il sistema si scatena contro di lui soltanto quando questi attacca direttamente i suoi rappresentanti, sfruttando ai massimi livelli quelli che sono gli schemi stessi del sistema, di cui si beffa. I diritti civili di Darby furono rispettati, ma quelli di Shelton no.
Shelton è visto alla stregua di un terrorista, ma è anche l'esaltazione della forza del singolo cittadino contro il sistema. Non è un caso che gli inquirenti siano convinti che ci sia un'organizzazione dietro di lui, reputando impossibile che un uomo da solo e chiuso in prigione sia capace di scatenare una simile guerra contro le istituzioni.
E in un certo senso potremmo dire che esiste questa organizzazione, che è lo Stato stesso. Shelton, infatti, ha sempre lavorato per il Governo degli Stati Uniti, permettendo ai cittadini di "vivere serenamente il sogno americano". Ma quando il sogno americano è stato tradito da chi opera all'interno delle istituzioni, infrangendosi e crollando proprio sulle spalle di Shelton, questi non ha fatto altro che utilizzare contro le istituzioni tutte quelle strategie, quelle conoscenze e quegli strumenti che le istituzione stesse gli hanno messo a disposizione e che gli hanno sempre richiesto di utilizzare a proprio vantaggio, fregandosene dei diritti umani e civili delle vittime. Sarebbe una lettura riduttiva e superficiale quella che cerca di cucire su Shelton il ruolo di semplice terrorista.
Shelton personifica il potere che il popolo ha nei confronti delle istituzioni governative nel caso in cui queste tradiscano il patto sociale che legittima la loro esistenza.

Se si riflette attentamente il pessimo finale del film non deve essere considerato buonista. Certo esso lo è nella misura in cui l'ipocrisia del politically correct vuole che il cittadino che va contro le istituzioni sia giudicato un criminale della peggiore specie. Ma se si osserva la dimensione che permea quasi l'intera pellicola, Clyde Shelton non è differente dallo Zarathustra di Nietzsche. Egli è il portatore di una verità semplice ed elementare, che nessuno vuole accettare: ossia che il sistema istituzionale, costruito appositamente per difendere la società e mantenuto dai cittadini, non solo è imperfetto, ma è alla pari, se non peggio, dei criminali da cui dovrebbe difendere la società stessa. E, infatti, è eloquente l'immagine della stretta di mano fra Darby e Rice, dopo il patteggiamento. In questa dimensione, la sconfitta di Shelton non è il trionfo del bene sul male, ma è la disfatta del bene ad opera del male impersonato da Nick Rice.
Resta un peccato che l'interpretazione, che si offre in questa sede e che chi scrive è convinto che sia quella voluta polemicamente da Wimmer, non sia il messaggio che il film alla fine trasmette.
È palese che il messaggio rivolto al pubblico è quello che chi si macchia di omicidio in nome della giustizia privata non è differente dagli altri criminali e deve essere estirpato dal sistema in quanto nemico della società.

Anche la scelta di ambientare il film a Filadelfia, una delle più antiche città statunitensi, simbolo dell'indipendenza e della fondazione di un nuovo stato (nella Indipendence Hall furono redatte sia la Dichiarazione d'Indipendenza sia la Costituzione degli Sati Uniti d'America), sembrerebbe avallare l'impostazione anti istituzionale della storia originale di Zimmer. Anche in questo caso, però, ci si muove su un piano ipotetico.

Il finale del film è da considerarsi pessimo sotto ogni profilo.
A livello contenutistico il messaggio che trasmette è brutto oltre che incoerente, anche inteso sotto un profilo pedagogico suggerito dal fatto che Rice avrebbe imparato da Shelton a non scendere a compromessi. Peccato che Rice, al contrario di Shelton, possedesse strumenti assai più potenti e più violenti di quelli di Shelton, ossia l'esercizio dei poteri istituzionali conferitigli dallo Stato.
A livello narrativo si dimostra affrettato, mal costruito ed incoerente con il profilo caratteriale, psicologico ed intellettivo dei personaggi.
A livello della progressione narrativa si dimostra inconcludente e pasticciato.

La regia di F. Gary Gary è buona e ben sposa le tematiche della sceneggiatura. Si pensi alle riprese panoramiche iniziali della City Hall di Filadelfia, la cui cupola è dominata da una statua di William Penn, al palazzo di giustizia ed alle scale labirintiche percorse dal sostituto procuratore Rice.
Naturalmente la dimensione in cui questo regista si trova più a proprio agio resta quella dell'azione rocambolesca e, in alcuni casi, sembra che egli abbia seguito maggiormente la propria inclinazione piuttosto che la sceneggiatura. Tuttavia, per quanto un po' fracassona si tratta di una regia trascinante e avvincente, che sa catturare l'attenzione dello spettatore.

Buone l'interpretazione di Gerard Butler, ma soprattutto quelle di Bruce McGill nel ruolo di Jonas Cantrell e di Colm Meany nel ruolo del detective Dunnigan.
Jamie Foxx, invece, sembra non aver capito niente del proprio personaggio, volendogli infondere quel buonismo tipico dell'uomo comune che svolge correttamente e diligentemente il proprio lavoro e confondendosi con il taxista di "Collateral" (2004), avendo in comune con questi la capacità di uccidere, non si sa come, un uomo assai più intelligente, più scaltro e più forte di lui. Pur non avendo capito niente del proprio personaggio, Foxx ha ben compreso quello che desiderava la Produzione da lui e forse è per questa ragione che ha tanto insistito per ottenere il ruolo di Rice che inizialmente era stato proposto, pensate un po', a Gerard Butler.

Alla luce della conflittualità e dell'incoerenza intrinseca delle tematiche trattate, delle scelte registiche e della tipologia delle interpretazioni, qualsivoglia contenuto etico, politico o sociale cede il passo alla sopraccitata improbabilità della vicenda, trasformando "Giustizia Privata" in uno spettacolare film di intrattenimento concluso da un pessimo finale e che, una volta terminato, lascia allo spettatore poco o niente.
Un film divertente, da vedere senza troppe pretese e solo a patto di volersi lasciare coinvolgere all'interno dei suoi schemi improbabili, senza nessuna assunzione di verisimiglianza e preparandosi a restare con l'amaro in bocca per la vigliaccheria del finale.

Ma tanto come abbiamo imparato bene da Clarence Darby è inutile opporsi al destino... O forse no...

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Recensione a cura di Carlo Baldacci Carli - aggiornata al 30/08/2010 17.18.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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