Recensione big bang love, juvenile a regia di Takashi Miike Giappone 2006
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Recensione big bang love, juvenile a (2006)

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locandina del film BIG BANG LOVE, JUVENILE A

Immagine tratta dal film BIG BANG LOVE, JUVENILE A

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Immagine tratta dal film BIG BANG LOVE, JUVENILE A

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Due giovani giungono contemporaneamente in prigione. Il più giovane, Jun, è barista in un bar gay, in cui ha conosciuto l'uomo che ucciderà. Il secondo, Shiro è un delinquente di vecchia data, che in passato aveva stuprato la moglie del direttore del carcere, la quale in seguito al fatto si era suicidata. Tra i due ragazzi nasce uno stranissimo rapporto di natura inizialmente affettiva, ma con forti connotazioni proiettive che porteranno a conseguenze disastrose.

In questo insolito e riuscitissimo lavoro Miike decide per una rappresentazione circolare degli eventi, scelta che gli vale una menzione a parte per l'originalità ed un'altra per la maestria registica che questa richiede. I fatti narrati sono in realtà assai semplici, ma noi avremo modo di accorgerci di questo solo alla fine, quando i giochi saranno fatti, le proiezioni ritirate e finalmente il non detto ci verrà mostrato.

Shiro e Jun corrono in circolo in un ambiente scenograficamente teatrale, dove un manipolo di giovanotti si azzuffa senza tregua, viene da pensare che lo facciano per non accoppiarsi, dato il sottotesto assai palese nel più puro stile Jean Genet. Si tratta di un carcere, ma la scenografia richiama Dogville, e con esso tutti i precedenti lavori che usano lo spazio come segno e simbolo della rappresentazione, con l'uso di una tale massiccia proiezione dei contenuti che anche le parole più semplici dovranno essere ripetute per venire comprese.
L'azione si svolge in pochissimo tempo, ma ci viene mostrata ciclicamente da più angolazioni, col risultato di arricchire la nostra percezione ad ogni istante. Il contenuto palese non è quello vero, l'apparenza sarà smentita e il non detto prenderà possesso con forza della nostra percezione sovvertendola.

Miike ci manda incontro al suo personale modello di scardinamento della continuità con una tale leggerezza che pare di essere in un sogno. In verità è della materia dei sogni che questo delirio visivo un po' barocco sembra costituito, dal momento che tutto quello che vediamo non è vero.
La piramide e il razzo presenti all'esterno, o forse sarà l'interno della mente dei protagonisti, richiamano immediatamente le possibilità che restano a chi è rinchiuso. La prima una permanenza che supera il tempo e diviene leggenda, Shiro, mentre il secondo il tentativo dello stesso Shiro di trascendere il qui ed ora seguendo l'impulso ad andare fuori dal tempo e dallo spazio.
Il direttore del carcere assume connotati più cinerei a mano a mano che svela la sua storia e il suo presunto coinvolgimento nella morte di Shiro. C'è persino un ammiccamento ai fantasmi modaioli dell'ultimo cinema nipponico, con la moglie suicida del direttore che striscia al suo fianco e con la sua presenza smentisce le parole di lui. I personaggi entrano lentamente a far parte del complesso puzzle che Miike ha pensato per noi senza mai opporsi al loro destino, anzi abbracciandolo con foga come fosse un salvagente nel mare in tempesta dell'animo umano. E mentre tutto questo accade lo spettatore rimane stranito di fronte a tutto il non detto, che sprizza da ogni dove e smentisce con forza le poche cose dichiarate.

Gli attori sono straordinari nel recitare il loro dramma di un vissuto sospeso nel tempo e sicuramente spostato nello spazio. Le luci e la fotografia, carica la seconda quanto tenui le prime, ci regalano un delirio visivo che molto si presta alla scenografica rappresentazione proiettiva del sé dei protagonisti. La regia è quanto di più misurato Miike abbia prodotto finora, con lievi tocchi di colore per accentuare l'aspetto barocco del racconto.

In tutta l'opera non si riesce a ravvisare un solo difetto; persino la durata è misurata al centesimo sul ritmo delle possibilità che, non espresse dapprima, dovranno lentamente compirsi poi. Direi che quest'opera rappresenta uno dei punti di compromesso tra la capacità espressiva di Miike e la sua esigenza di trascendere i generi per raccontare semplicemente il dramma dell'animo umano, così senza una cornice né un motivo ulteriore, come ogni grande narratore dovrebbe esser libero di fare.

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Recensione a cura di Anna Maria Pelella - aggiornata al 27/03/2009

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