martina74 








6½ / 10 08/02/2006 13:02:21 » RispondiPerchè una donna, rea confessa del rapimento e delitto di un bambino, che passa tredici anni in carcere espiando giorno per giorno la sua colpa e cercando di rendere più lieve la vita delle sue compagne di cella (anche in modi poco ortodossi, in verità), all'uscita cambia completamente atteggiamento e si mette alla ricerca di un uomo che ritiene il vero colpevole della vicenda? Perchè, al contempo, continua a espiare la colpa (vera o presunta? completa o parziale?) compiendo anche azioni di automutilazione? Perchè non ha fin dall'inizio scaricato quella colpa sul vero autore delle efferate violenze, lasciandolo libero e indisturbato a compiere altri crudeli delitti?
Dopo un lunghissimo preambolo, scopriamo che la ragione della serena e "illuminata" permanenza di Geum-ja dietro le sbarre è la presenza di una figlia, mai incontrata e "rubata" proprio da quel professore di inglese che è il vero responsabile del crimine di cui la ragazza si accusò, per evitare che l'uomo uccidesse anche la bambina appena nata. L'espiazione di Geum-ja si lega alla concezione del crimine come peccato: lei non ha commesso direttamente l'omicidio di un bambino ma ne è stata complice e, dopo tredici anni e il ritrovamento del professore scopre la sua connivenza inconsapevole (dovuta alla mancata denuncia) di altri rapimenti, di altre morti di bambini innocenti. Geum-ja non può perdonarsi di aver lasciato che le cose andassero in quel modo: il suo è anche un peccato di omissione, potremmo dire omissione di soccorso nei confronti di quei bambini.
Ma la nemesi, per una donna e madre, nella sua concezione non può essere compiuta per conto terzi, e allora eccola rintracciare i genitori dei bambini scomparsi ai quali, in un'atmosfera da macelleria meticolosamente preparata con la dotazione di armi da taglio e impermeabili antischizzo, far compiere la loro personale vendetta o, meglio "giustizia". Il colpevole subisce infatti una sorta di processo, ascoltando tutte le considerazioni dei genitori, della vendicatrice e di un investigatore (l'ago della bilancia?) pronto ad assicurarlo alla giustizia ma anche a rendersi complice dell'esecuzione.
Geum-ja lava le colpe proprie e del professore col sangue, ma il sangue non è acqua e il colore nefando rimane appiccicato ai teli di plastica, alle armi, alle anime dei coinvolti... e perfino alla torta che la nostra offre a tutti al termine della cerimonia sacrificale. Eppure questo non basta: non basta ai genitori che lasciano il proprio numero di conto corrente per essere risarciti delle somme versate come riscatto, non basta a Geum-ja, perseguitata dal fantasma cresciuto del bambino rapito, che simbolicamente la parifica al suo vero uccisore.
Non c'è consolazione nè giustizia, con la vendetta.



martina74 09/02/2006 21:27:51 » Rispondi

Perchè una donna, rea confessa del rapimento e delitto di un bambino, che passa tredici anni in carcere espiando giorno per giorno la sua colpa e cercando di rendere più lieve la vita delle sue compagne di cella (anche in modi poco ortodossi, in verità), all'uscita cambia completamente atteggiamento e si mette alla ricerca di un uomo che ritiene il vero colpevole della vicenda? Perchè, al contempo, continua a espiare la colpa (vera o presunta? completa o parziale?) compiendo anche azioni di automutilazione? Perchè non ha fin dall'inizio scaricato quella colpa sul vero autore delle efferate violenze, lasciandolo libero e indisturbato a compiere altri crudeli delitti?
Dopo un lunghissimo preambolo, scopriamo che la ragione della serena e "illuminata" permanenza di Geum-ja dietro le sbarre è la presenza di una figlia, mai incontrata e "rubata" proprio da quel professore di inglese che è il vero responsabile del crimine di cui la ragazza si accusò, per evitare che l'uomo uccidesse anche la bambina appena nata. L'espiazione di Geum-ja si lega alla concezione del crimine come peccato: lei non ha commesso direttamente l'omicidio di un bambino ma ne è stata complice e, dopo tredici anni e il ritrovamento del professore scopre la sua connivenza inconsapevole (dovuta alla mancata denuncia) di altri rapimenti, di altre morti di bambini innocenti. Geum-ja non può perdonarsi di aver lasciato che le cose andassero in quel modo: il suo è anche un peccato di omissione, potremmo dire omissione di soccorso nei confronti di quei bambini.
Ma la nemesi, per una donna e madre, nella sua concezione non può essere compiuta per conto terzi, e allora eccola rintracciare i genitori dei bambini scomparsi ai quali, in un'atmosfera da macelleria meticolosamente preparata con la dotazione di armi da taglio e impermeabili antischizzo, far compiere la loro personale vendetta o, meglio "giustizia". Il colpevole subisce infatti una sorta di processo, ascoltando tutte le considerazioni dei genitori, della vendicatrice e di un investigatore (l'ago della bilancia?) pronto ad assicurarlo alla giustizia ma anche a rendersi complice dell'esecuzione.
Geum-ja lava le colpe proprie e del professore col sangue, ma il sangue non è acqua e il colore nefando rimane appiccicato ai teli di plastica, alle armi, alle anime dei coinvolti... e perfino alla torta che la nostra offre a tutti al termine della cerimonia sacrificale. Eppure questo non basta: non basta ai genitori che lasciano il proprio numero di conto corrente per essere risarciti delle somme versate come riscatto, non basta a Geum-ja, perseguitata dal fantasma cresciuto del bambino rapito, che simbolicamente la parifica al suo vero uccisore.
Non c'è consolazione nè giustizia, con la vendetta.

martina74 10/02/2006 12:04:53 » RispondiPerchè una donna, rea confessa del rapimento e delitto di un bambino, che passa tredici anni in carcere espiando giorno per giorno la sua colpa e cercando di rendere più lieve la vita delle sue compagne di cella (anche in modi poco ortodossi, in verità), all'uscita cambia completamente atteggiamento e si mette alla ricerca di un uomo che ritiene il vero colpevole della vicenda? Perchè, al contempo, continua a espiare la colpa (vera o presunta? completa o parziale?) compiendo anche azioni di automutilazione? Perchè non ha fin dall'inizio scaricato quella colpa sul vero autore delle efferate violenze, lasciandolo libero e indisturbato a compiere altri crudeli delitti?
Dopo un lunghissimo preambolo, scopriamo che la ragione della serena e "illuminata" permanenza di Geum-ja dietro le sbarre è la presenza di una figlia, mai incontrata e "rubata" proprio da quel professore di inglese che è il vero responsabile del crimine di cui la ragazza si accusò, per evitare che l'uomo uccidesse anche la bambina appena nata. L'espiazione di Geum-ja si lega alla concezione del crimine come peccato: lei non ha commesso direttamente l'omicidio di un bambino ma ne è stata complice e, dopo tredici anni e il ritrovamento del professore scopre la sua connivenza inconsapevole (dovuta alla mancata denuncia) di altri rapimenti, di altre morti di bambini innocenti. Geum-ja non può perdonarsi di aver lasciato che le cose andassero in quel modo: il suo è anche un peccato di omissione, potremmo dire omissione di soccorso nei confronti di quei bambini.
Ma la nemesi, per una donna e madre, nella sua concezione non può essere compiuta per conto terzi, e allora eccola rintracciare i genitori dei bambini scomparsi ai quali, in un'atmosfera da macelleria meticolosamente preparata con la dotazione di armi da taglio e impermeabili antischizzo, far compiere la loro personale vendetta o, meglio "giustizia". Il colpevole subisce infatti una sorta di processo, ascoltando tutte le considerazioni dei genitori, della vendicatrice e di un investigatore (l'ago della bilancia?) pronto ad assicurarlo alla giustizia ma anche a rendersi complice dell'esecuzione.
Geum-ja lava le colpe proprie e del professore col sangue, ma il sangue non è acqua e il colore nefando rimane appiccicato ai teli di plastica, alle armi, alle anime dei coinvolti... e perfino alla torta che la nostra offre a tutti al termine della cerimonia sacrificale. Eppure questo non basta: non basta ai genitori che lasciano il proprio numero di conto corrente per essere risarciti delle somme versate come riscatto, non basta a Geum-ja, perseguitata dal fantasma cresciuto del bambino rapito, che simbolicamente la parifica al suo vero uccisore.
Non c'è consolazione nè giustizia, con la vendetta.


Perchè una donna, rea confessa del rapimento e delitto di un bambino, che passa tredici anni in carcere espiando giorno per giorno la sua colpa e cercando di rendere più lieve la vita delle sue compagne di cella (anche in modi poco ortodossi, in verità), all'uscita cambia completamente atteggiamento e si mette alla ricerca di un uomo che ritiene il vero colpevole della vicenda? Perchè, al contempo, continua a espiare la colpa (vera o presunta? completa o parziale?) compiendo anche azioni di automutilazione? Perchè non ha fin dall'inizio scaricato quella colpa sul vero autore delle efferate violenze, lasciandolo libero e indisturbato a compiere altri crudeli delitti?
Dopo un lunghissimo preambolo, scopriamo che la ragione della serena e "illuminata" permanenza di Geum-ja dietro le sbarre è la presenza di una figlia, mai incontrata e "rubata" proprio da quel professore di inglese che è il vero responsabile del crimine di cui la ragazza si accusò, per evitare che l'uomo uccidesse anche la bambina appena nata. L'espiazione di Geum-ja si lega alla concezione del crimine come peccato: lei non ha commesso direttamente l'omicidio di un bambino ma ne è stata complice e, dopo tredici anni e il ritrovamento del professore scopre la sua connivenza inconsapevole (dovuta alla mancata denuncia) di altri rapimenti, di altre morti di bambini innocenti. Geum-ja non può perdonarsi di aver lasciato che le cose andassero in quel modo: il suo è anche un peccato di omissione, potremmo dire omissione di soccorso nei confronti di quei bambini.
Ma la nemesi, per una donna e madre, nella sua concezione non può essere compiuta per conto terzi, e allora eccola rintracciare i genitori dei bambini scomparsi ai quali, in un'atmosfera da macelleria meticolosamente preparata con la dotazione di armi da taglio e impermeabili antischizzo, far compiere la loro personale vendetta o, meglio "giustizia". Il colpevole subisce infatti una sorta di processo, ascoltando tutte le considerazioni dei genitori, della vendicatrice e di un investigatore (l'ago della bilancia?) pronto ad assicurarlo alla giustizia ma anche a rendersi complice dell'esecuzione.
Geum-ja lava le colpe proprie e del professore col sangue, ma il sangue non è acqua e il colore nefando rimane appiccicato ai teli di plastica, alle armi, alle anime dei coinvolti... e perfino alla torta che la nostra offre a tutti al termine della cerimonia sacrificale. Eppure questo non basta: non basta ai genitori che lasciano il proprio numero di conto corrente per essere risarciti delle somme versate come riscatto, non basta a Geum-ja, perseguitata dal fantasma cresciuto del bambino rapito, che simbolicamente la parifica al suo vero uccisore.
Non c'è consolazione nè giustizia, con la vendetta.

martina74 11/02/2006 11:31:26 » RispondiPerchè una donna, rea confessa del rapimento e delitto di un bambino, che passa tredici anni in carcere espiando giorno per giorno la sua colpa e cercando di rendere più lieve la vita delle sue compagne di cella (anche in modi poco ortodossi, in verità), all'uscita cambia completamente atteggiamento e si mette alla ricerca di un uomo che ritiene il vero colpevole della vicenda? Perchè, al contempo, continua a espiare la colpa (vera o presunta? completa o parziale?) compiendo anche azioni di automutilazione? Perchè non ha fin dall'inizio scaricato quella colpa sul vero autore delle efferate violenze, lasciandolo libero e indisturbato a compiere altri crudeli delitti?
Dopo un lunghissimo preambolo, scopriamo che la ragione della serena e "illuminata" permanenza di Geum-ja dietro le sbarre è la presenza di una figlia, mai incontrata e "rubata" proprio da quel professore di inglese che è il vero responsabile del crimine di cui la ragazza si accusò, per evitare che l'uomo uccidesse anche la bambina appena nata. L'espiazione di Geum-ja si lega alla concezione del crimine come peccato: lei non ha commesso direttamente l'omicidio di un bambino ma ne è stata complice e, dopo tredici anni e il ritrovamento del professore scopre la sua connivenza inconsapevole (dovuta alla mancata denuncia) di altri rapimenti, di altre morti di bambini innocenti. Geum-ja non può perdonarsi di aver lasciato che le cose andassero in quel modo: il suo è anche un peccato di omissione, potremmo dire omissione di soccorso nei confronti di quei bambini.
Ma la nemesi, per una donna e madre, nella sua concezione non può essere compiuta per conto terzi, e allora eccola rintracciare i genitori dei bambini scomparsi ai quali, in un'atmosfera da macelleria meticolosamente preparata con la dotazione di armi da taglio e impermeabili antischizzo, far compiere la loro personale vendetta o, meglio "giustizia". Il colpevole subisce infatti una sorta di processo, ascoltando tutte le considerazioni dei genitori, della vendicatrice e di un investigatore (l'ago della bilancia?) pronto ad assicurarlo alla giustizia ma anche a rendersi complice dell'esecuzione.
Geum-ja lava le colpe proprie e del professore col sangue, ma il sangue non è acqua e il colore nefando rimane appiccicato ai teli di plastica, alle armi, alle anime dei coinvolti... e perfino alla torta che la nostra offre a tutti al termine della cerimonia sacrificale. Eppure questo non basta: non basta ai genitori che lasciano il proprio numero di conto corrente per essere risarciti delle somme versate come riscatto, non basta a Geum-ja, perseguitata dal fantasma cresciuto del bambino rapito, che simbolicamente la parifica al suo vero uccisore.
Non c'è consolazione nè giustizia, con la vendetta.


Perchè una donna, rea confessa del rapimento e delitto di un bambino, che passa tredici anni in carcere espiando giorno per giorno la sua colpa e cercando di rendere più lieve la vita delle sue compagne di cella (anche in modi poco ortodossi, in verità), all'uscita cambia completamente atteggiamento e si mette alla ricerca di un uomo che ritiene il vero colpevole della vicenda? Perchè, al contempo, continua a espiare la colpa (vera o presunta? completa o parziale?) compiendo anche azioni di automutilazione? Perchè non ha fin dall'inizio scaricato quella colpa sul vero autore delle efferate violenze, lasciandolo libero e indisturbato a compiere altri crudeli delitti?
Dopo un lunghissimo preambolo, scopriamo che la ragione della serena e "illuminata" permanenza di Geum-ja dietro le sbarre è la presenza di una figlia, mai incontrata e "rubata" proprio da quel professore di inglese che è il vero responsabile del crimine di cui la ragazza si accusò, per evitare che l'uomo uccidesse anche la bambina appena nata. L'espiazione di Geum-ja si lega alla concezione del crimine come peccato: lei non ha commesso direttamente l'omicidio di un bambino ma ne è stata complice e, dopo tredici anni e il ritrovamento del professore scopre la sua connivenza inconsapevole (dovuta alla mancata denuncia) di altri rapimenti, di altre morti di bambini innocenti. Geum-ja non può perdonarsi di aver lasciato che le cose andassero in quel modo: il suo è anche un peccato di omissione, potremmo dire omissione di soccorso nei confronti di quei bambini.
Ma la nemesi, per una donna e madre, nella sua concezione non può essere compiuta per conto terzi, e allora eccola rintracciare i genitori dei bambini scomparsi ai quali, in un'atmosfera da macelleria meticolosamente preparata con la dotazione di armi da taglio e impermeabili antischizzo, far compiere la loro personale vendetta o, meglio "giustizia". Il colpevole subisce infatti una sorta di processo, ascoltando tutte le considerazioni dei genitori, della vendicatrice e di un investigatore (l'ago della bilancia?) pronto ad assicurarlo alla giustizia ma anche a rendersi complice dell'esecuzione.
Geum-ja lava le colpe proprie e del professore col sangue, ma il sangue non è acqua e il colore nefando rimane appiccicato ai teli di plastica, alle armi, alle anime dei coinvolti... e perfino alla torta che la nostra offre a tutti al termine della cerimonia sacrificale. Eppure questo non basta: non basta ai genitori che lasciano il proprio numero di conto corrente per essere risarciti delle somme versate come riscatto, non basta a Geum-ja, perseguitata dal fantasma cresciuto del bambino rapito, che simbolicamente la parifica al suo vero uccisore.
Non c'è consolazione nè giustizia, con la vendetta.

maremare 11/02/2006 14:15:23 » RispondiSCEMO CHI LEGGE
ghghghgh

martina74 11/02/2006 18:01:58 » RispondiPerchè una donna, rea confessa del rapimento e delitto di un bambino, che passa tredici anni in carcere espiando giorno per giorno la sua colpa e cercando di rendere più lieve la vita delle sue compagne di cella (anche in modi poco ortodossi, in verità), all'uscita cambia completamente atteggiamento e si mette alla ricerca di un uomo che ritiene il vero colpevole della vicenda? Perchè, al contempo, continua a espiare la colpa (vera o presunta? completa o parziale?) compiendo anche azioni di automutilazione? Perchè non ha fin dall'inizio scaricato quella colpa sul vero autore delle efferate violenze, lasciandolo libero e indisturbato a compiere altri crudeli delitti?
Dopo un lunghissimo preambolo, scopriamo che la ragione della serena e "illuminata" permanenza di Geum-ja dietro le sbarre è la presenza di una figlia, mai incontrata e "rubata" proprio da quel professore di inglese che è il vero responsabile del crimine di cui la ragazza si accusò, per evitare che l'uomo uccidesse anche la bambina appena nata. L'espiazione di Geum-ja si lega alla concezione del crimine come peccato: lei non ha commesso direttamente l'omicidio di un bambino ma ne è stata complice e, dopo tredici anni e il ritrovamento del professore scopre la sua connivenza inconsapevole (dovuta alla mancata denuncia) di altri rapimenti, di altre morti di bambini innocenti. Geum-ja non può perdonarsi di aver lasciato che le cose andassero in quel modo: il suo è anche un peccato di omissione, potremmo dire omissione di soccorso nei confronti di quei bambini.
Ma la nemesi, per una donna e madre, nella sua concezione non può essere compiuta per conto terzi, e allora eccola rintracciare i genitori dei bambini scomparsi ai quali, in un'atmosfera da macelleria meticolosamente preparata con la dotazione di armi da taglio e impermeabili antischizzo, far compiere la loro personale vendetta o, meglio "giustizia". Il colpevole subisce infatti una sorta di processo, ascoltando tutte le considerazioni dei genitori, della vendicatrice e di un investigatore (l'ago della bilancia?) pronto ad assicurarlo alla giustizia ma anche a rendersi complice dell'esecuzione.
Geum-ja lava le colpe proprie e del professore col sangue, ma il sangue non è acqua e il colore nefando rimane appiccicato ai teli di plastica, alle armi, alle anime dei coinvolti... e perfino alla torta che la nostra offre a tutti al termine della cerimonia sacrificale. Eppure questo non basta: non basta ai genitori che lasciano il proprio numero di conto corrente per essere risarciti delle somme versate come riscatto, non basta a Geum-ja, perseguitata dal fantasma cresciuto del bambino rapito, che simbolicamente la parifica al suo vero uccisore.
Non c'è consolazione nè giustizia, con la vendetta.


Perchè una donna, rea confessa del rapimento e delitto di un bambino, che passa tredici anni in carcere espiando giorno per giorno la sua colpa e cercando di rendere più lieve la vita delle sue compagne di cella (anche in modi poco ortodossi, in verità), all'uscita cambia completamente atteggiamento e si mette alla ricerca di un uomo che ritiene il vero colpevole della vicenda? Perchè, al contempo, continua a espiare la colpa (vera o presunta? completa o parziale?) compiendo anche azioni di automutilazione? Perchè non ha fin dall'inizio scaricato quella colpa sul vero autore delle efferate violenze, lasciandolo libero e indisturbato a compiere altri crudeli delitti?
Dopo un lunghissimo preambolo, scopriamo che la ragione della serena e "illuminata" permanenza di Geum-ja dietro le sbarre è la presenza di una figlia, mai incontrata e "rubata" proprio da quel professore di inglese che è il vero responsabile del crimine di cui la ragazza si accusò, per evitare che l'uomo uccidesse anche la bambina appena nata. L'espiazione di Geum-ja si lega alla concezione del crimine come peccato: lei non ha commesso direttamente l'omicidio di un bambino ma ne è stata complice e, dopo tredici anni e il ritrovamento del professore scopre la sua connivenza inconsapevole (dovuta alla mancata denuncia) di altri rapimenti, di altre morti di bambini innocenti. Geum-ja non può perdonarsi di aver lasciato che le cose andassero in quel modo: il suo è anche un peccato di omissione, potremmo dire omissione di soccorso nei confronti di quei bambini.
Ma la nemesi, per una donna e madre, nella sua concezione non può essere compiuta per conto terzi, e allora eccola rintracciare i genitori dei bambini scomparsi ai quali, in un'atmosfera da macelleria meticolosamente preparata con la dotazione di armi da taglio e impermeabili antischizzo, far compiere la loro personale vendetta o, meglio "giustizia". Il colpevole subisce infatti una sorta di processo, ascoltando tutte le considerazioni dei genitori, della vendicatrice e di un investigatore (l'ago della bilancia?) pronto ad assicurarlo alla giustizia ma anche a rendersi complice dell'esecuzione.
Geum-ja lava le colpe proprie e del professore col sangue, ma il sangue non è acqua e il colore nefando rimane appiccicato ai teli di plastica, alle armi, alle anime dei coinvolti... e perfino alla torta che la nostra offre a tutti al termine della cerimonia sacrificale. Eppure questo non basta: non basta ai genitori che lasciano il proprio numero di conto corrente per essere risarciti delle somme versate come riscatto, non basta a Geum-ja, perseguitata dal fantasma cresciuto del bambino rapito, che simbolicamente la parifica al suo vero uccisore.
Non c'è consolazione nè giustizia, con la vendetta.

martina74 13/02/2006 18:39:42 » RispondiPerchè una donna, rea confessa del rapimento e delitto di un bambino, che passa tredici anni in carcere espiando giorno per giorno la sua colpa e cercando di rendere più lieve la vita delle sue compagne di cella (anche in modi poco ortodossi, in verità), all'uscita cambia completamente atteggiamento e si mette alla ricerca di un uomo che ritiene il vero colpevole della vicenda? Perchè, al contempo, continua a espiare la colpa (vera o presunta? completa o parziale?) compiendo anche azioni di automutilazione? Perchè non ha fin dall'inizio scaricato quella colpa sul vero autore delle efferate violenze, lasciandolo libero e indisturbato a compiere altri crudeli delitti?
Dopo un lunghissimo preambolo, scopriamo che la ragione della serena e "illuminata" permanenza di Geum-ja dietro le sbarre è la presenza di una figlia, mai incontrata e "rubata" proprio da quel professore di inglese che è il vero responsabile del crimine di cui la ragazza si accusò, per evitare che l'uomo uccidesse anche la bambina appena nata. L'espiazione di Geum-ja si lega alla concezione del crimine come peccato: lei non ha commesso direttamente l'omicidio di un bambino ma ne è stata complice e, dopo tredici anni e il ritrovamento del professore scopre la sua connivenza inconsapevole (dovuta alla mancata denuncia) di altri rapimenti, di altre morti di bambini innocenti. Geum-ja non può perdonarsi di aver lasciato che le cose andassero in quel modo: il suo è anche un peccato di omissione, potremmo dire omissione di soccorso nei confronti di quei bambini.
Ma la nemesi, per una donna e madre, nella sua concezione non può essere compiuta per conto terzi, e allora eccola rintracciare i genitori dei bambini scomparsi ai quali, in un'atmosfera da macelleria meticolosamente preparata con la dotazione di armi da taglio e impermeabili antischizzo, far compiere la loro personale vendetta o, meglio "giustizia". Il colpevole subisce infatti una sorta di processo, ascoltando tutte le considerazioni dei genitori, della vendicatrice e di un investigatore (l'ago della bilancia?) pronto ad assicurarlo alla giustizia ma anche a rendersi complice dell'esecuzione.
Geum-ja lava le colpe proprie e del professore col sangue, ma il sangue non è acqua e il colore nefando rimane appiccicato ai teli di plastica, alle armi, alle anime dei coinvolti... e perfino alla torta che la nostra offre a tutti al termine della cerimonia sacrificale. Eppure questo non basta: non basta ai genitori che lasciano il proprio numero di conto corrente per essere risarciti delle somme versate come riscatto, non basta a Geum-ja, perseguitata dal fantasma cresciuto del bambino rapito, che simbolicamente la parifica al suo vero uccisore.
Non c'è consolazione nè giustizia, con la vendetta.


Perchè una donna, rea confessa del rapimento e delitto di un bambino, che passa tredici anni in carcere espiando giorno per giorno la sua colpa e cercando di rendere più lieve la vita delle sue compagne di cella (anche in modi poco ortodossi, in verità), all'uscita cambia completamente atteggiamento e si mette alla ricerca di un uomo che ritiene il vero colpevole della vicenda? Perchè, al contempo, continua a espiare la colpa (vera o presunta? completa o parziale?) compiendo anche azioni di automutilazione? Perchè non ha fin dall'inizio scaricato quella colpa sul vero autore delle efferate violenze, lasciandolo libero e indisturbato a compiere altri crudeli delitti?
Dopo un lunghissimo preambolo, scopriamo che la ragione della serena e "illuminata" permanenza di Geum-ja dietro le sbarre è la presenza di una figlia, mai incontrata e "rubata" proprio da quel professore di inglese che è il vero responsabile del crimine di cui la ragazza si accusò, per evitare che l'uomo uccidesse anche la bambina appena nata. L'espiazione di Geum-ja si lega alla concezione del crimine come peccato: lei non ha commesso direttamente l'omicidio di un bambino ma ne è stata complice e, dopo tredici anni e il ritrovamento del professore scopre la sua connivenza inconsapevole (dovuta alla mancata denuncia) di altri rapimenti, di altre morti di bambini innocenti. Geum-ja non può perdonarsi di aver lasciato che le cose andassero in quel modo: il suo è anche un peccato di omissione, potremmo dire omissione di soccorso nei confronti di quei bambini.
Ma la nemesi, per una donna e madre, nella sua concezione non può essere compiuta per conto terzi, e allora eccola rintracciare i genitori dei bambini scomparsi ai quali, in un'atmosfera da macelleria meticolosamente preparata con la dotazione di armi da taglio e impermeabili antischizzo, far compiere la loro personale vendetta o, meglio "giustizia". Il colpevole subisce infatti una sorta di processo, ascoltando tutte le considerazioni dei genitori, della vendicatrice e di un investigatore (l'ago della bilancia?) pronto ad assicurarlo alla giustizia ma anche a rendersi complice dell'esecuzione.
Geum-ja lava le colpe proprie e del professore col sangue, ma il sangue non è acqua e il colore nefando rimane appiccicato ai teli di plastica, alle armi, alle anime dei coinvolti... e perfino alla torta che la nostra offre a tutti al termine della cerimonia sacrificale. Eppure questo non basta: non basta ai genitori che lasciano il proprio numero di conto corrente per essere risarciti delle somme versate come riscatto, non basta a Geum-ja, perseguitata dal fantasma cresciuto del bambino rapito, che simbolicamente la parifica al suo vero uccisore.
Non c'è consolazione nè giustizia, con la vendetta.

martina74 14/02/2006 12:48:42 » RispondiPerchè una donna, rea confessa del rapimento e delitto di un bambino, che passa tredici anni in carcere espiando giorno per giorno la sua colpa e cercando di rendere più lieve la vita delle sue compagne di cella (anche in modi poco ortodossi, in verità), all'uscita cambia completamente atteggiamento e si mette alla ricerca di un uomo che ritiene il vero colpevole della vicenda? Perchè, al contempo, continua a espiare la colpa (vera o presunta? completa o parziale?) compiendo anche azioni di automutilazione? Perchè non ha fin dall'inizio scaricato quella colpa sul vero autore delle efferate violenze, lasciandolo libero e indisturbato a compiere altri crudeli delitti?
Dopo un lunghissimo preambolo, scopriamo che la ragione della serena e "illuminata" permanenza di Geum-ja dietro le sbarre è la presenza di una figlia, mai incontrata e "rubata" proprio da quel professore di inglese che è il vero responsabile del crimine di cui la ragazza si accusò, per evitare che l'uomo uccidesse anche la bambina appena nata. L'espiazione di Geum-ja si lega alla concezione del crimine come peccato: lei non ha commesso direttamente l'omicidio di un bambino ma ne è stata complice e, dopo tredici anni e il ritrovamento del professore scopre la sua connivenza inconsapevole (dovuta alla mancata denuncia) di altri rapimenti, di altre morti di bambini innocenti. Geum-ja non può perdonarsi di aver lasciato che le cose andassero in quel modo: il suo è anche un peccato di omissione, potremmo dire omissione di soccorso nei confronti di quei bambini.
Ma la nemesi, per una donna e madre, nella sua concezione non può essere compiuta per conto terzi, e allora eccola rintracciare i genitori dei bambini scomparsi ai quali, in un'atmosfera da macelleria meticolosamente preparata con la dotazione di armi da taglio e impermeabili antischizzo, far compiere la loro personale vendetta o, meglio "giustizia". Il colpevole subisce infatti una sorta di processo, ascoltando tutte le considerazioni dei genitori, della vendicatrice e di un investigatore (l'ago della bilancia?) pronto ad assicurarlo alla giustizia ma anche a rendersi complice dell'esecuzione.
Geum-ja lava le colpe proprie e del professore col sangue, ma il sangue non è acqua e il colore nefando rimane appiccicato ai teli di plastica, alle armi, alle anime dei coinvolti... e perfino alla torta che la nostra offre a tutti al termine della cerimonia sacrificale. Eppure questo non basta: non basta ai genitori che lasciano il proprio numero di conto corrente per essere risarciti delle somme versate come riscatto, non basta a Geum-ja, perseguitata dal fantasma cresciuto del bambino rapito, che simbolicamente la parifica al suo vero uccisore.
Non c'è consolazione nè giustizia, con la vendetta.


Perchè una donna, rea confessa del rapimento e delitto di un bambino, che passa tredici anni in carcere espiando giorno per giorno la sua colpa e cercando di rendere più lieve la vita delle sue compagne di cella (anche in modi poco ortodossi, in verità), all'uscita cambia completamente atteggiamento e si mette alla ricerca di un uomo che ritiene il vero colpevole della vicenda? Perchè, al contempo, continua a espiare la colpa (vera o presunta? completa o parziale?) compiendo anche azioni di automutilazione? Perchè non ha fin dall'inizio scaricato quella colpa sul vero autore delle efferate violenze, lasciandolo libero e indisturbato a compiere altri crudeli delitti?
Dopo un lunghissimo preambolo, scopriamo che la ragione della serena e "illuminata" permanenza di Geum-ja dietro le sbarre è la presenza di una figlia, mai incontrata e "rubata" proprio da quel professore di inglese che è il vero responsabile del crimine di cui la ragazza si accusò, per evitare che l'uomo uccidesse anche la bambina appena nata. L'espiazione di Geum-ja si lega alla concezione del crimine come peccato: lei non ha commesso direttamente l'omicidio di un bambino ma ne è stata complice e, dopo tredici anni e il ritrovamento del professore scopre la sua connivenza inconsapevole (dovuta alla mancata denuncia) di altri rapimenti, di altre morti di bambini innocenti. Geum-ja non può perdonarsi di aver lasciato che le cose andassero in quel modo: il suo è anche un peccato di omissione, potremmo dire omissione di soccorso nei confronti di quei bambini.
Ma la nemesi, per una donna e madre, nella sua concezione non può essere compiuta per conto terzi, e allora eccola rintracciare i genitori dei bambini scomparsi ai quali, in un'atmosfera da macelleria meticolosamente preparata con la dotazione di armi da taglio e impermeabili antischizzo, far compiere la loro personale vendetta o, meglio "giustizia". Il colpevole subisce infatti una sorta di processo, ascoltando tutte le considerazioni dei genitori, della vendicatrice e di un investigatore (l'ago della bilancia?) pronto ad assicurarlo alla giustizia ma anche a rendersi complice dell'esecuzione.
Geum-ja lava le colpe proprie e del professore col sangue, ma il sangue non è acqua e il colore nefando rimane appiccicato ai teli di plastica, alle armi, alle anime dei coinvolti... e perfino alla torta che la nostra offre a tutti al termine della cerimonia sacrificale. Eppure questo non basta: non basta ai genitori che lasciano il proprio numero di conto corrente per essere risarciti delle somme versate come riscatto, non basta a Geum-ja, perseguitata dal fantasma cresciuto del bambino rapito, che simbolicamente la parifica al suo vero uccisore.
Non c'è consolazione nè giustizia, con la vendetta.
maremare 10/02/2006 01:07:27 » Rispondiprrrrr

martina74 10/02/2006 10:55:07 » RispondiPerchè una donna, rea confessa del rapimento e delitto di un bambino, che passa tredici anni in carcere espiando giorno per giorno la sua colpa e cercando di rendere più lieve la vita delle sue compagne di cella (anche in modi poco ortodossi, in verità), all'uscita cambia completamente atteggiamento e si mette alla ricerca di un uomo che ritiene il vero colpevole della vicenda? Perchè, al contempo, continua a espiare la colpa (vera o presunta? completa o parziale?) compiendo anche azioni di automutilazione? Perchè non ha fin dall'inizio scaricato quella colpa sul vero autore delle efferate violenze, lasciandolo libero e indisturbato a compiere altri crudeli delitti?
Dopo un lunghissimo preambolo, scopriamo che la ragione della serena e "illuminata" permanenza di Geum-ja dietro le sbarre è la presenza di una figlia, mai incontrata e "rubata" proprio da quel professore di inglese che è il vero responsabile del crimine di cui la ragazza si accusò, per evitare che l'uomo uccidesse anche la bambina appena nata. L'espiazione di Geum-ja si lega alla concezione del crimine come peccato: lei non ha commesso direttamente l'omicidio di un bambino ma ne è stata complice e, dopo tredici anni e il ritrovamento del professore scopre la sua connivenza inconsapevole (dovuta alla mancata denuncia) di altri rapimenti, di altre morti di bambini innocenti. Geum-ja non può perdonarsi di aver lasciato che le cose andassero in quel modo: il suo è anche un peccato di omissione, potremmo dire omissione di soccorso nei confronti di quei bambini.
Ma la nemesi, per una donna e madre, nella sua concezione non può essere compiuta per conto terzi, e allora eccola rintracciare i genitori dei bambini scomparsi ai quali, in un'atmosfera da macelleria meticolosamente preparata con la dotazione di armi da taglio e impermeabili antischizzo, far compiere la loro personale vendetta o, meglio "giustizia". Il colpevole subisce infatti una sorta di processo, ascoltando tutte le considerazioni dei genitori, della vendicatrice e di un investigatore (l'ago della bilancia?) pronto ad assicurarlo alla giustizia ma anche a rendersi complice dell'esecuzione.
Geum-ja lava le colpe proprie e del professore col sangue, ma il sangue non è acqua e il colore nefando rimane appiccicato ai teli di plastica, alle armi, alle anime dei coinvolti... e perfino alla torta che la nostra offre a tutti al termine della cerimonia sacrificale. Eppure questo non basta: non basta ai genitori che lasciano il proprio numero di conto corrente per essere risarciti delle somme versate come riscatto, non basta a Geum-ja, perseguitata dal fantasma cresciuto del bambino rapito, che simbolicamente la parifica al suo vero uccisore.
Non c'è consolazione nè giustizia, con la vendetta.
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