Ho apprezzato molto il secondo lungometraggio di Olmi, "Il posto" è un gran bel film, secco, realistico, dai tratti documentaristici ma che riesce a scatenare una forte empatia nei confronti del protagonista, un ragazzo della provincia lombarda che viene mandato, complice anche una grossa spinta dei genitori, a fare dei colloqui per essere assunto in questa grande azienda milanese, nel film vi sono in nuce diverse tematiche che il regista approfondirà nel corso della carriera a partire dal trasferimento del giovane dalla campagna alla grigia realtà cittadina, in un'Italia all'alba del boom economico che vedeva stravolgere lo stile di vita delle famiglie e l'inserimento dei lavoratori in una vita frenetica ed un contesto consumistico, da un lato vi è questa sorta di visione idealizzata del posto di lavoro, quell'impiego fisso che punta a dare stabilità al giovane per il resto della vita, dall'altro vi è una schematizzazione ed un ambiente di lavoro severo ed apatico, tutta la prima parte mette in risalto, con una certa tensione, quanto i candidati tengano a figurare al colloquio, il tanto desiderato posto di lavoro, conquistato tramite queste lunghe prove, tra test scritti, fisici e psico attitudinali, si rivelerà poi sotto una natura disillusa.
La seconda parte, che mostra la vita del protagonista dal momento dell'assunzione in poi, inizialmente come semplice aiuto fattorino, vista la mancanza di posti da impiegato, prende dei risvolti filo esistenzialisti, ricollegandosi anche alla sottotrama sentimentale che si viene a creare, tra il timido giovane e la ragazza conosciuta ai colloqui, dalla quale è attratto, che tuttavia non riesce mai a far nascere una storia per via degli ostacoli di natura lavorativa, come possono essere gli orari che non coincidono e le mansioni diverse, ma anche per via di un certo atteggiamento attendista da parte del giovane con l'amarissima sequenza del capodanno e la continua speranza di incontrarla per avere un'ultima opportunità che andrà a spegnersi pian piano col passare del tempo, a tal proposito, quella scena, che funziona come una piccola oasi di divertimento, nel bel mezzo di una stagnante quotidianità, è una chicca di disillusione unica, Olmi fa un lavoro registico encomiabile e il contesto nel quale avviene la festa riesce a renderla quasi una sofferenza per lo spettatore, che come il protagonista si sente impantanato in questa vita grigia e apatica.
Il finale, con la morte del collega e il nuovo posto acquisito dal protagonista, con conseguente lotta per la scrivania migliore, è la ciliegina sulla torta definitiva di un grandissimo film, mostrando ancora meglio il contesto di ipercompetitività che si viene a creare, l'egoismo scaturito da una società in cui ognuno tira acqua al proprio mulino, Olmi va oltre la lotta di classe - che vi è comunque, basti vedere la rappresentazione dell'ingegnere, uno dei pezzi grossi della ditta, inquadrato in modo da farlo sembrare mastodontico, con una voce cupa e severa, una figura ieratica e che incute timore -, va diretto verso quell'animo umano che per via del contesto è costretto ad alzare muri, ad adattarsi ad una società individualista, qui rifuggendo da ogni sentimentalismo e nostalgia, lasciando spazio solo all'amarezza ed ad un futuro totalmente grigio.