Splendido film di Von Horn, lo metterei tra i più belli del 2024, freddissimo, spietato, toccante, un film che scava nella miseria umana in un contesto difficilissimo come quello del secondo dopoguerra, mi ha ricordato tanto le opere di autori come "Bresson" e "Haneke", con le dovute differenze stilistiche, ma tematicamente secondo me gli va molto vicino, la prima parte può sembrare un convenzionale dramma sociale con la storia di questa donna che viene sfrattata di casa e subisce una delusione dopo l'altra, viene assunta in una fabbrica tessile e inizia una relazione col direttore, da cui avrà un bambino, ma l'uomo infrangerà presto la promessa di sposarla per pressioni esterne, quelle della madre, che lo vogliono lontano da una donna povera e malridotta come la protagonista, è un film sull'illusione di elevarsi che si scontra con la tristissima realtà, la protagonista in questa fase è come in una sorta di estasi in cui sembra la sua vita stia per svoltare, rifiutando anche il marito appena tornato dalla guerra col volto perennemente compromesso, al punto da renderlo un freak, ma ben presto il sogno svanisce e la protagonista rimasta sola e in procinto di avere un bambino sarà costretta da un destino avverso a tornare dal marito entrato a far parte di una banda di fenomeni da baraccone.
Da questo contesto di disillusione e sofferenza entra in gioco il personaggio di Dagmar, donna che possiede un'agenzia di adozione clandestina che darà una mano alla protagonista per far adottare il bambino che ha avuto dato che non ha le possibilità per mantenerlo, presto la protagonista inizierà a lavorare con Dagmar, dandole una mano per riconoscenza fino a scoprire la terribile verità, con alcune scene da far accapponare la pelle, in questa seconda parte il film diventa un vero e proprio shock, il regista è abile a creare una violenza psicologica incredibile, con un metodo che ricorda appunto i già citati Bresson e Haneke, suggerendo le uccisioni fuori campo, accennando all'estremo gesto e poi lasciando al sonoro il compito di dilaniare lo spettatore, con i pianti disperati dei neonati che riecheggiano, di una crudeltà incredibile, ma il grosso merito del film è quello di mostrare anche il punto di vista di Dagmar, che nella sua follia disumana sembra avere dei motivi nobili, visti dal suo punto di vista ormai rassegnato ad una realtà ben peggiore della morte, facendo intendere che ritiene meglio far fuori il bambino piuttosto che farlo crescere in un contesto di povertà e malessere come quello che si stava vivendo al tempo, in un finale amaro quanto disturbante che tuttavia dopo l'inferno vissuto sembra lasciare uno spiraglio di luce aperto.
Splendido stilisticamente con una componente registica molto eterogenea, che varia da uno stile più grezzo con anche la camera a mano, nelle prime sequenze nell'umile casa della protagonista, ad uno stile colmo di rigore formale nella dimora aristocratica dell'uomo che stava per sposarla andando a trasformarsi in un incubo ad occhi aperti nella seconda parte in cui assume fattezze lisergiche, con una splendida descrizione del contesto, tra queste case in rovina in cui spesso mancano i servizi essenziali come acqua e luce e una metropoli estremamente cupa, il bianco e nero dona un grande fascino ed enuncia sia la realisticità della prima parte che la spettralità dela seconda, con uno splendido uso espressivo della fotografia - la sequenza in cui il marito tornato dalla guerra sale in casa in cui resta in penombra nelle scale di fronte alla proprietaria, mostrando quanto si vergogni di quello che è diventato -