kowalsky 8 / 10 24/01/2013 19:00:07 » Rispondi Il vecchio Quentin scherza col fuoco, tratteggiando con grottesca disinvoltura un ripugnante ritratto dello schiavismo, talmente ideologico da sembrare falso. La sua ambiguità si avvale persino delle teorie scientifiche o nella sontuosa cena a casa di Calvin Candle (un Di Caprio finalmente meno ingessato del solìto, mai così spietato) dove qualsiasi essere umano dotato di un'anima prova, per inciso, un disgusto per il Verbo anche superiore all'overdose di violenza di certe immagini. Poi mescola abilmente cultura beat e blaxpoitation, si/ci ricorda che Alexander Dumas Sr. aveva la pelle nera, trasforma il modello "ariano" del Sigfried dei Nibelunghi in un magnifico eroe all-black. Il suo Django è una via di mezzo tra la dimensione Cristologica Mitologica e Rivoluzionaria, a seconda dei drammatici eventi. E forse è altrettanto ripugnante questo vero/falso remake costruito con la forza dei fucili, in un periodo particolarmente delicato per l'America di Obama che insegue l'utopia di un paese con meno licenza di uccidere. Niente da fare arriva Q. Tarantino e come un Charlton Heston qualsiasi riuscirà a far aumentare l'uso delle armi, dopo questo film. A questo punto potrei definire il suo Django inutilmente reazionario, esageratamente truculento e pure un pochetto fascista, e forse non avrei tutti i torti. Ma non va così. Perchè il guaio è che questo figlio di buona donna ci sa fare, e abbiamo davanti ai nostri occhi uno splendido film d'avventura, con una fotografia impeccabile e una direzione di attori personale ma non per questo meno avvicente. Non a caso l'inequivocabile verità, quella che mette fine a dubbi e sospetti, è trapelata dalle parole del personaggio più negativo, Stephen di Samuel L. Jackson. Il "Negro" spregevolmente bonario e complice dei bianchi, traditore della razza ma lucido nel suo ineguagliabile, fatalista, doppiogiochismo. Una carogna fatalista perchè vede un destino già scritto, magari eterno e tristemente immortale. Il gusto spiccato delle citazioni, da Peckinpah a Leone passando per Kubrick spinge Quentin a ricordarsi che Bruce Dern ha sempre avuto la faccia da carogna che pretendeva di avere in un suo film (cfr. nei panni di Curtis Carrucan) e a ricordarci che la convenzionalità può essere, nelle sue mani, quanto di più anticonvenzionale e moderno si sia mai visto nello schermo. Qualche volta torna a fare il c.a.z.z.a.r.o. (il tiro a segno su un pupazzo di neve?!) ma insegue sempre il mito di un cinema che dosa sapientemente tanti ingredienti con uno stile unico, non ortodosso, raggiungendo lo zenith di una violenza quasi beffarda nella sua ignobile asperità (spoiler) e tutto questo non ha rivali, nel cinema contemporaneo. Forse farebbe bene a chiedersi se dopo questo film possa o no girare indisturbato per le strade di Harlem, se non cerchi egli stesso di essere frainteso