cinemaincompagn 8 / 10 12/12/2025 11:25:27 » Rispondi Commenti È un film duro, forse anche perché racconta una realtà. C'è una sensazione un po' diversa del crimine, del reo, di chi ha commesso qualcosa di alterato e quindi va oltre un po' l'analisi, le dimensioni di responsabilità psicologiche; forse è proprio questa nuova attenzione a quello che c'è dietro il crimine, che non si riesce in effetti a giustificare, ad accettare, ma che effettivamente esiste nella mente umana di chi ha commesso un delitto; cosa c'è dietro e quanto sia importante, da una parte, cercare di capire in maniera diversa anche per superare, cioè avanzare; d'altra parte mi ha colpito la frase della Golino "non riesco a superare, non voglio". "Il rancore mi è necessario.", l'importante dimensione dalla parte delle vittime. E mi fa pensare alla giustizia riparativa che cerca di avvicinare il reo con la vittima in una dimensione emotiva che è una scommessa nuova per noi tutti, per la ricerca di quello che siamo, quanto di complessità c'è nell'essere umano nel relazionarci che con gli altri, al di là dell'auto-responsabilità nelle relazioni complesse, quanto di imponderabile c'è.
Aggiungo come nota che il ricercatore le dice che sta scoprendo la parte violenta che c'è in ciascuno di noi. È necessario distinguere colpevole e vittima, è evidente, è oggettivo. Ma la domanda su chi siamo riguarda entrambi e non è un problema che si può affidare all'uno o all'altro. La provocazione vuole essere quella di farci una domanda.
Mi sembra interessante l'uso del bianco, della neve, cioè un mondo sospeso nel bianco, nella neve, con gli abiti rossi delle colpevoli, collegato all'amnesia. È come se ci fosse questo desiderio di tenerle in questo mondo ovattato e sospeso per difenderle in qualche maniera dal loro passato e da sé stesse, per porre dei limiti tra realtà, ricordo, crimine commesso e un possibile futuro, lasciarle in una sorta di limbo bianco.
Anche qui una nota: quando il ricercatore scrive quando è in semi-libertà, le dice che finalmente è uscita da quegli alberi che le proteggono: perché così c'è la possibilità di non rimanere in quel pur necessario luogo di protezione e di prigione che è innovativo per un diverso sguardo, più volte citata nel film; anche il padre è riuscito ad avere uno sguardo che va oltre. Il senso del regista riportato nelle interviste è di andare oltre il fatto oggettivo successo, rispetto al quale naturalmente si prenderebbe la parte della vittima. La domanda che si può fare è per guardare cosa?
È un tentativo ben riuscito di avvicinarsi al male, che noi consideriamo strano e non riusciamo ad entrarci; da un lato, quando ci si avvicina si scopre che la realtà supera la fantasia, cioè si è capaci di fare cosa che ognuno non immaginerebbe possa fare. Dall'altro lato c'è un senso di paura incrollabile perchè non si capisce come uno possa aver fatto quello o ancora peggio. È un tentativo a portare gli spettatori a superare questa divisione e ad accostarsi a ciò che è separazione verso questa visione dell'accostarci ad un carcere diverso rispetto a quello che è e che spesso peggio è un male ancora più grande del crimine, con la violenza all'interno di un sistema istituzionalizzato in un'altra forma di male.
Il metodo è guardare, però anche la Golino ha guardato, però non è immediato, ci vuole qualche motivo speciale per poter adottare il criterio del ricercatore: lui non lo dice il perché si avvicina al male, però è la ricerca di qualcosa nell'altro. La domanda è aperta per interrogarci su che cos'è quell'essenza che il ricercatore dice di voler vedere oltre i meccanismi del male.
È la speranza.
È quello che dice nella sua prima lezione dove dice "dobbiamo cominciare a guardare non solo la persona colpevole come mostro".
Al di là del messaggio ho letto un discorso un po' diverso: ci creiamo degli alibi quando ci sono delle situazioni, che ci giustificano in qualche maniera e ci aiutano comunque ad andare avanti. Forse il criminologo cerca di far uscire quella che era la verità e quindi di far constatare all'assassino, non parlando più del 'fatto', ma di omicidio, di cosa effettivamente è successo in modo che forse la salvezza può uscire dal fatto che ci si rende conto effettivamente di quello che è stato, non cercando di appigliarsi ad alibi per giustificarsi. Perché forse è il suo modo di aiutare le persone.
Aggiungo che il cambiamento che più volte le fa osservare che sta avvenendo è, oltre la presa di coscienza, la responsabilità e il riconoscere quello che è successo, nella frase finale del film che a me ha dato il senso a tutto il percorso, "non conta come sei, ma sei unica". La ricerca è l'unicità di ciascuno, che è intoccabile anche se è un criminale. L'inizio della possibilità che non è la soluzione perché la vita rimane un casino, è essere guardati come unici e non essere giudicati per qualunque cosa si possa commettere. Non stiamo dicendo anarchia, irresponsabilità e impunibilità, no, la punizione è necessaria; però il punto è cercare di guardare oltre per capire da dove viene. È interessante che lei pressa sulla domanda, perché avere questa ricerca di vedere com'è che tu hai fatto questa cosa, non può partire se non da una ricerca su di sé; se non fa a sé la domanda il ricercatore non può affrontare cinicamente o meccanicamente una ricerca scientifica su "chi sei tu". È un rapporto, una relazione ciò che nasce tra i due e quindi, piano piano, anche con la fermezza di lei, lui è costretto a rifarsi la domanda e cambia vita andando a vedere il peggio.
Ho notato che quando lei ha chiesto perché lo fai lui la risposta non la dà dicendo di trovarsi in lotte fratricide e ogni volta di essere costretto a cambiare atteggiamento. E poi c'è questa frase atroce: "il male sta in ognuno di noi".
Le recensioni riportano anche l'evidenza sulla banalità, ordinarietà del male. C'è una patologia chiara però dopo mangia un biscotto in cucina e dice di non essersi mai sentita così bene come in quel momento.
Sì perché il discorso è che lei era una che si adattava: tutto lì è il nodo. Nasce dall'aver represso per anni il suo desiderio, anche quello banale di essere altro. Questa è una delle chiavi di interpretazione psicologica.
Segnalo il senso di giustizia. Nella fotografia iniziale ritenevano di essere nel giusto di fronte a un orrore. La gente in certe condizioni ha un senso di giustizia che guardando dall'esterno se ne vede l'assurdità, ma stando dentro … i due fidanzati sono contenti. Quindi banalità del male e senso di giustizia relativo, non assoluto.
Oggi c'è la notizia su Charlie Kirk. Mi meravigliavo sui social, tra le amiche di mia figlia, c'erano ragazzi che dicevano ha fatto questo, questo,… e hanno fatto bene ad ammazzarlo. Anche nelle cose che possono sembrare più nette, di qua il bene, di qua il male, comunque si riesce a giustificare.
In un'intervista, commentando la blanda sentenza che praticamente ha assolto un marito che ha aggredito la moglie, con la giustificazione del comportamento nei confronti della famiglia con la separazione, mi ha molto colpito un magistrato che fa divulgazione che diceva: noi giudici abbiamo necessariamente il compito di guardare il colpevole, non ci interessa la vittima, perché per giudicare noi dobbiamo guardare lì. Qui si aggiunge lo spirito di ricerca per approfondire l'umano, scoprire che cos'è che ci costituisce, perché l'obiettivo non è la giustizia dell'ordinamento giuridico, ma è un superamento di quello per andare avanti. Il giudice deve fermare le cose, bloccarle e dare sentenza, punizione/assoluzione, quindi ha lo scopo di guardare il colpevole, è il suo compito. Invece questo tentativo è andare oltre e guardare soprattutto quello che c'è prima del crimine, capire da dove nasce, e la possibilità per il dopo, perché altrimenti la soluzione sono punizioni radicali.
Ho visto alcuni elementi di speranza durante il film. Ho percepito che ci sono stati alcuni momenti in cui ci si aspetta, come spettatore un gesto estremo e puntualmente appare una figura di secondo piano, ad esempio la compagna che prepara le verdure oppure nel bosco la guardia carceraria, o ancora la bimba.
Giustamente una compagnia umana che ti sta vicino anche dormendo insieme a te, non facendo niente di particolare, è fondamentale, perché quell'io di cui stiamo parlando, quella ricerca che si approfondisce, alla fine scopre che ha bisogno di avere una relazione, che da soli non ci si salva. Sceneggiatori e regista hanno fatto comparire sempre questo elemento ed effettivamente la speranza di cui parlavi è residente nelle persone che abbiamo vicino, che anche inconsapevolmente, poiché non è detto che ne abbiano il progetto di darti speranza, però accade, è un avvenimento quello che accade.
Ho pensato che alla fine della pena la colpa accompagnerà per tutta la vita per un fatto così grave; e a proposito della compagnia, elemento evidente di consolazione ho pensato che se fosse successo a me avrei avuto paura di un atto violento ma probabilmente chi viene dalle stesse esperienze sa leggere molto meglio e quindi può stare vicino. È molto più difficile per chi è estraneo che si colloca da un'altra parte perché separa; ma chi ha vissuto può stare vicino, perché ha, diciamo, ha un'ampiezza di sentimenti e può più facilmente interpretare. Mi hanno colpito le scene di allegria con figli, altri, amici; come a dire che anche chi ha commesso fatti gravi è capace di vivere con un altro sentimento. La paura viene per chi non conosce è ha messo da parte, ma chi ha distrutto ha meno paura.
Chi ha condiviso il male può capire di più malessere, paura, dolore, però la provocazione del film è che anche chi non ha commesso un crimine può essere capace di provare compassione.