caratteri piccoli caratteri medi caratteri grandi Chiudi finestra

IL MAESTRO (2025) regia di Andrea Di Stefano

Nascondi tutte le risposte
Visualizza tutte le risposte
Invia una mail all'autore del commento cinemaincompagn     8 / 10  12/12/2025 11:14:43 » Rispondi
COMMENTI
A me viene un banalissimo commento: nessuno si salva da solo e che soltanto se io sono guardata, voluta bene, anche nella maniera più semplice, ce la faccio quando proprio sono sottoterra.

C'è un tema spesso negli ultimi film: i giovani che aiutano, salvano gli anziani perché c'è la scena dell'abbraccio che lo ha salvato dall'ennesima scelta radicale per cui è un tema che viene spesso deve significare qualcosa per noi. Nella presentazione che hai fatto non c'è il ragazzino eccezionale il secondo film che fa è molto bravo come attore.

La prova di eccezionale interpretazione del ragazzo (Tiziano Menichelli) mostra che recitare proviene prima di tutto dal talento naturale. Diceva Mastroianni che recitare è un giocare più che un lavoro ("Non vorrei apparire snob, ma apprezzo molto il termine che usano i francesi: per dire "recitare" loro dicono "jouer" che in italiano sarebbe "giocare". Questo è un mestiere meraviglioso: ti pagano per giocare"). Più si è bambini, più si cade nel gioco e più si riesce senza propri schemi: rivelazione principale di questo film a livello attoriale. Da lì nasce il contrasto fra una visione della vita che ti vuole in competizione e vincitore a tutti i costi e la vita vera che nell'accettazione della fragilità di ognuno di noi porta a vivere e, forse, ad aspirare anche a sprazzi di felicità che al contrario una vita basata sulla vittoria a tutti i costi non ti porta.

Favino è stato bravissimo a rappresentare, dal mio punto di vista, il dolore che non sparisce mai. Nei piccoli particolari di recitazione è riuscito a trasmettere un attimo dopo il sorriso sardonico, l'amarezza di una vita sprecata. In crisi ricomincia da capo a fare il gigione: è come se la salvezza non è cambiare atteggiamento o capire che si è sbagliato; la salvezza è realmente uno che ti stringe e ti evita di buttarti. Ha colpito la capacità di rappresentare la realtà e non c'è bisogno che cambi il punto di vista. Quella realtà può essere salvata. Non c'è bisogno che ce ne sia un'altra. Non c'è bisogno di un altro Gatti. È Gatti che si deve salvare.

La cosa bella in questo rapporto (tra Raul e Gatti) è l'incontro di due fallimenti e però si arriva a capire che il fallimento non è definitivo, nel senso che nel ragazzo è più importante capire che così è la vita: anche accettare la sconfitta. Hanno guadagnato entrambi consapevolezza che un fallimento non è la non-riuscita di quello che credi prefissato; anche nella fragilità c'è una possibilità di essere riferimento per gli altri per un altro.

Abbiamo assistito alla notizia delle gemelle Kessler e tutti esaltano che essendo il suicidio 'assistito' si salva la questione; in questo caso il ragazzo ha 'assistito' stando vicino.
Per me il tema principale del film è la malattia e come viene affrontata. Lui è un ciclotimico cioè alterna momenti di allegria a momenti di depressione con una velocità impressionante e Favino rende benissimo questa alternanza di sorrisi, di pianto, di allegria sfrenata e di depressione sfrenata.
È un film curato nei particolari: anche gli attori secondari sono bravi, anche la ragazza che interpreta la figlia. C'è la scena della mamma del ragazzino che ha una goccia che li cola dal naso: meravigliosa.
Un'ultima cosa: la scena del bambino che gioca col papà è citazione dal libro di Andre Agassi "Open la mi storia". Il padre di Agassi ha cominciato a obbligare il figlio a sei anni a giocare a tennis e ha costruito quello che chiamava il mostro sparapalle e gli mandava una ripetizione una palla dopo l'altra perché lui le potesse prendere.


Mi ha colpito è il discorso della follia, in un certo senso stigma sulla malattia mentale. La follia è presente in tutti noi forse come lo è la ragione. Il ragazzo forse avrebbe rischiato di impazzire in quella casa se non avesse conosciuto il maestro. C'è in un certo senso lo scagionare l'idea del folle che in realtà è prima di tutto un uomo con le sue debolezze, con le sue fragilità, non necessariamente intrappolato nelle etichette di una diagnosi e magari anche di una terapia farmacologica. È estremizzato però mi ha colpito l'umanizzazione e, in un certo senso, il livellamento perché alla fine il maestro si identifica con questo ragazzo che è tra 'io ideale' e 'io reale': sogna di diventare campione perché non può deludere le aspettative; però alla fine ha certamente vissuto il conflitto la figura paterna da cui si sentiva anche un po' incastrato in uno schema, in un'immagine. Alla fine riesce a salvarsi in base alla parte più vera: alla fine anche il maestro è benvoluto da tutti e nessuno lo cambia.
Partecipare a un po' di follia probabilmente permette di far venire fuori tutto sé stesso: è un po' liberatoria la follia.
Grazie.