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La più grande messa in scena della sofferenza su schermo, "semplicemente" questo è tanto altro ancora (ma non inscindibile dal dolore) è Sussurri e Grida. E ovviamente, un capolavoro. Ma tra i tanti di Bergman precedenti questo quasi sembra voler svettare, ritagliarsi una vita propria per la perfezione stilistica, tematica e recitativa delle quattro monumentali attrici. Con una fotografia di agghiacciante forza, con un colore rosso predominante su tutto, Bergman scava a fondo come suo solito nelle anime di quattro donne inquiete, dal passato e presente doloroso. Mette in scena l'incomunicabilità,la lotta alla vita, l'autoflagellazione, l'istinto di morte, di amore, di maternità tutta al femminile come nessun altro è riuscito a fare prima e dopo di lui. Gli interminabili silenzi sono interrotti dagli urli estremi di sofferenza di una Harriet Anderson trasfigurata nel simbolo della pena e della morte; dall'ottimismo solo apparentemente stoico di una sensualissima Liv Ullmann; dalla freddezza respingente di una statuaria Ingrid Thulin; e dalla dolcezza materna e amorevole della "serva" Kari Sylwan, che da vita ad una delle scene più belle e delicate della storia del cinema con quel suo porgere il seno ad una donna morente, seno di donna, di madre, di amica. Si arriva distrutti, completamente annientati al finale desolante che fa ripiombare nel silenzio di rapporti umani fatti di incomunicabilità, ricostruiti solo momentaneamente nella solidarietà (o paura) di fronte alla morte, ai sussurri e alle grida. Cosi vive, cosi pietrificate, è proprio davanti la morte annunciante di queste urla e sospiri che esce fuori il lato vivo della vicenda, positivo. Con un finale pietrificato indietro nel tempo.