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"Disagio", "America", "Grande depressione". Alle volte non vi capisco proprio. Dovete sempre cadere nelle etichettature inutili per cosa poi? Scrivere qualche parola in più? Come chi, parlando di "Ikiru" di Kurosawa, se ne esce con "malattia", o "vecchiaia". È un film sull'esistenza. Punto. Che c'incastra poi "La lunga marcia" Stephen King quando il film è tratto dall'omonimo romanzo di Horace McCoy uscito nel '35. E non so se ho reso bene l'idea. Il 1935. Praticamente attuale come non mai, rende inutili e sprecate tonnellate di carta stampata (e pellicola) utilizzate in tutti questi anni. Il pessimismo, l'antinatalismo, non sono cose nuove. Non è un fulmine a ciel sereno un film del genere, non dopo il buddhismo o Schopenhauer. Ma qualcuno ha mai visto il messaggio espresso in modo tanto diretto, tanto crudo? In Italia la cosa che va più vicino al capolavoro di Pollack è forse "Totò e Carolina", censurato fino allo sfinimento e, comunque, con un suo "lieto" fine. Un'altra cosa comparabile al finale, all'abbandono della giostra, è "La ballata di Stroszek". Ma lì il messaggio è sublimato dal simbolismo finale. Pollack, invece, per 2 ore e 10 riprende la condizione umana in tutta la sua miseria. Il finale poi, con lo spettacolo che va avanti, è un pugno nello stomaco.