Earl Partridge, in punto di morte, desidera dopo anni rivedere il figlio che ha seguito le orme del padre nell'ambiente della televisione, attorno a questa situazione si intrecciano le vicende di altri personaggi.
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Un piagnisteo di tre ore insopportabile. Una parata di situazioni familiari ultra-patetiche, che Paul Thomas Anderson vorrebbe propinarci in una veste accattivante attraverso l’(ab)uso della narrazione a intreccio (molto in voga negli ultimi anni), ma che ad un occhio attento si disvelano in tutta la loro banalità. Peggio dell’Inarritu di “21 Grammi” e dell’Arriaga di “The Burning Plain” (peraltro sceneggiatore del regista messicano): “Magnolia” si configura come un’esaltazione dei ruoli familiari nel contesto di canovacci deprimenti e melodrammatici, aggravati dall’incombenza di un Caso che –“incredibile dictu”- si trasmuta in una Divina Provvidenza manzoniana, con tanto di citazione biblica annessa. Il momento più basso però è quello della canzonetta corale, nel quale il “patetismo” di cui è permeata tutta la pellicola raggiunge la sua acmè: sorta di apoteosi della s****, dove la lagna del singolo si amplifica nella sintonia e nella sinergia con tutti i personaggi della messinscena. Da salvare soltanto la regia e il montaggio, che perlomeno rendono scorrevole la visione.