Il film ripercorre, con una serie di flashback, la vita di Pu-Yi, l'ultimo imperatore della Cina: da fanciullo cui tutto era dovuto, essendo figlio del Cielo, a re fantoccio del ""Manciukuo"" in mano ai giapponesi, a prigioniero dei campi di rieducazione politica ai tempi di Mao, dopo un periodo passato in Siberia ostaggio dei russi. Fino alla anonima morte, avvenuta durante la rivoluzione culturale.
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L'enfatizzazione di spettacolone per le masse (ben altra caratura il migliore della trilogia, quel "piccolo Buddha" che insegna agli occidentali il Siddharta con l'epopea di una favola moderna) scioglie ogni dubbio: piaccia o meno, "L'ultimo imperatore" è la prova del definitivo TRADIMENTO autoriale di Bertolucci, venduto al "nemico americano" (non certo per me, ma per la sua apparentemente coerente linea ideologica di tanti tanti anni fa) per una pioggia di premi. Se fosse un premio alla carriera, avrebbe il sapore - piu' che di riscossa - di riabilitazione dal vecchio anticonformista che fu. Si puo' rievocare , eccome, la figura di un'imperatore senza eccedere nel fasto titanico della rappresentazione, cosa che è riuscita allo splendido Sokurov de "Il sole".
Un film tuttavia, che si puo' odiare ma non dev'essere ignorato: sotto la dicitura "da non perdere" e stancamente preposto al suo doveroso e ufficiale rito di "capolavoro". Ma lo è veramente?
La parte iniziale, le lacrime e lo straniamento di un bambino davanti a un ruolo che lo strappa dal suo mondo per riportarlo bruscamente in una fase adulta troppo precoce, è la migliore: c'è davvero il riflesso dell'immaginazione occidentale e una grandissima capacità di rappresentare la realtà con un forte rispetto della storia. (10)
Debole, a mio avviso, quasi tutto il resto: la parte centrale coltiva il feuilleton e sfocia nel dramma personale, risultando fastidiosamente romanzata e delirante (4).
Superiore, ma non eccelsa, tutta la parte finale: affascinante la figura dell'uomo che si ritrova in prigione come un cittadino cinese qualsiasi, decisamente qualunquista e iconografica la rievocazione del Maoismo ai tempi della rivoluzione "rossa". (6)
Per dirla appunto alla Mao, "grande è la confusione sopra e sotto il cielo". Bertolucci si crede Attenborough, ma avrebbe le qualità (come dimostrano i primi trenta minuti del film) per far impallidire il tedioso regista inglese.
Soprattutto, manca quel ripensamento storico e ideologico - culturale che trent'anni prima sarebbe stato tra le primarie necessità del regista per fare un film, per parlare di un personaggio del genere.
Lo spettacolo è immenso, l'anima pero' è raggelata
Tra 10, 4, 6, mi pare che la media giusta sia questa