la mia droga si chiama julie regia di Francois Truffaut Francia 1969
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la mia droga si chiama julie (1969)

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locandina del film LA MIA DROGA SI CHIAMA JULIE

Titolo Originale: LA SIRÈNE DU MISSISSIPPI

RegiaFrancois Truffaut

InterpretiCatherine Deneuve, Jean-Paul Belmondo, Nelly Borgeaud

Durata: h 2.00
NazionalitàFrancia 1969
Generedrammatico
Tratto dal libro "Waltz Into Darkness" di Cornell Woolrich
Al cinema nel Maggio 1969

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Trama del film La mia droga si chiama julie

Louis Mahé (Jean-Paul Belmondo) vive nell'isola di Réunion e ha sposato Julie (Catherine Deneuve), dopo averla conosciuta per corrispondenza. Lei è molto più bella che nelle fotografie e si giustifica dicendo di avergli mandato quelle di una vicina, per metterlo alla prova. In realtà è una truffatrice e assassina di nome Marion che, dopo aver dato fondo al conto in banca di Louis, fugge. Ma l'uomo ormai è innamorato di lei. La fuga di Louis e di Julie/Marion è anche una fuga senza compromessi dalla civiltà e dalle sue regole e giustamente non si chiude sull'ultimo fotogramma: alla fantasia dello spettatore viene lasciato il compito di immaginarsi una conclusione.

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Voto Visitatori:   7,59 / 10 (16 voti)7,59Grafico
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Voti e commenti su La mia droga si chiama julie, 16 opinioni inserite

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JOKER1926  @  30/08/2012 03:24:30
   7 / 10
Dal celebre regista francese della "Nuova ondata" a finire degli anni sessanta (1969) prende conformazione ed essenza un film di risonanza, "La mia droga si chiama Julie".
Francois Truffaut è un regista che allega alle sue formidabili esposizioni visive anche un contenuto non indifferente. "Non indifferente" come nel frangente con "La mia droga si chiama Julie". In questo prodotto cinematografico il fulcro concettuale e dinamico naviga nel corpo, nell'anima, nelle sensazioni di un uomo ricco che cerca l'amore attraverso lettere, insomma cerca la donna della propria vita senza conoscerla (conoscenza per corrispondenza)…
Ad interpretare il ricco un buonissimo Jean Paul Belmondo, nella parte dell'ambigua e cinica Julie troviamo Catherine Deneuve. In pratica gli attori adoperati dalla regia sono in grado di dare al prodotto un qualcosa di veramente sostanzioso. Coppia affiatata. Gli altri attori svolgono (giustamente) funzioni satellite lasciando, doverosamente, lo spazio ai due amanti.
Su questa scia, a questo punto, da annoverare nella fattispecie tecnica anche la bellissima fotografia composta da colori vivissimi. Alcune sequenze, come quella del vestito in vetrina, sono una totale esplosione di colori, nel frangente il rosso, detta le regole di un gioco di colori che poggia, spesso e volentieri, su un irresistibile contrasto colorato. Lavoro incommensurabile.
A convincere anche tutte le ambientazioni e le atmosfere del film.

"La mia droga si chiama Julie" espone fin da subito, in effetti sin dal titolo, la sua concettualità. Truffaut mette in mostra una storia di amore "trasversale" ove le regole sono manipolate dalla mente impura di una donna che, a più riprese, cerca di sterminare economicamente il suo amato, suo marito.
La narrazione impiegata dal regista è dinamica e varia, certamente non complessa. Vien fuori un film non statico in cui il ritmo non è basso. Anche se questa ultima peculiarità forse non era quella primaria per la regia di Truffaut.
Le sequenze hanno grande organicità e pian piano il film si addensa di dinamiche quasi thriller da apprezzare sicuramente.

L'amore ai tempi delle nuove generazioni

Parlando della regia in considerazione alle volte, o meglio, quasi sempre, si collega il tutto alle Nouvelle Vague. Nelle caratteristiche di questi film, oltre il non sempre cronico "standard" tecnico, si registravano delle cose abbastanza precise. Questi erano, e sono, quei lavori cinematografici dediti completamente a rappresentare la generazione del tempo. Nell'ottica, nella condizione de "La mia droga si chiama Julie" i riflettori poggiano le luci su un pessimismo e su una freddezza criminale collimante nell'amore di un uomo per una donna.
"Amore" che vaga fra tante parole e fra tanti inesorabili bluff ove il pubblico, giustamente, è messo a dura prova. Si soffre insieme al protagonista. L'enfasi del progetto si nutre di splendore verso la fine (la scena in cui Belmondo non "rimpiange"), attraverso dialoghi di formidabile impatto traspare l'arte di amare estrema paragonabile, sotto delicati aspetti, a quella che chiedeva Marlon Brando alla sua amata ne "L'ultimo tango a Parigi". In entrambi i casi si parla di rapporti difficili da gestire…
La regia francese all'altezza della situazione.

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