il miglio verde (1999)

Darabont continua a dare il suo meglio dopo “Le ali della libertà” riprendendone brillantemente l’ambientazione carceraria. La qualità stilistica che mette in campo è di altissimo livello, più di tutto però è la storia che appassiona. Certo il merito principale va dato al romanzo di King, ma spesso un racconto riesce a trasmetterci emozioni non per quello che è, ma per il modo in cui è narrato. E al cinema una storia è narrata attraverso una serie infinita di aspetti tecnici e non che, nel loro insieme, riescono a infondere nello spettatore sensazioni di ogni genere. Il primo quesito che mi sono posto dopo la visione è stato se “Il miglio verde” avesse o no un indirizzo politico riguardante la pena di morte. A mio avviso nell’economia del film ciò che conta di più è la storia di un uomo dotato di un dono straordinario, e del suo rapporto con un altro uomo per altri versi altrettanto straordinario. Più volte viene presentato l’orrore dell’esecuzione in tutta la sua crudezza, ma ciò viene fatto in maniera obiettiva, non critica, quasi documentaristica. Di ben altro rilievo invece il pathos volutamente creato attorno alle conflittuali emozioni interiori del protagonista. Darabont privilegia la carica umana ed i tratteggi psicologici in una sorta di favola oscura nella quale l’orco si tramuta in gigante buono, devastato dal peso del male del mondo, e il buono (o quasi) è condannato a vedere morire gli altri nell’attesa angosciante della propria fine, come un uomo nel miglio verde.