I progetti faciloni di ascesa sociale di un immobiliarista, il sogno di una vita diversa di una donna ricca e infelice, il desiderio di un amore vero di una ragazza oppressa dalle ambizioni del padre. E poi un misterioso incidente, in una notte gelida alla vigilia delle feste di Natale, a complicare le cose e a infittire la trama corale di un film dall’umorismo nero che si compone come un mosaico. Paolo Virzì stavolta racconta splendore e miseria di una provincia del Nord Italia, per offrirci un affresco acuto e beffardo di questo nostro tempo.
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Non prendiamoci in giro. La decadenza degli sfavillanti ambienti del capitalismo italiano è un tema che è stato già raccontato. Più volte anche. Molte volte. La maggior parte delle volte, ad essere sinceri. Un po' come se esistessero poche formule per tirare fuori un buon film e questa fosse una di quelle.
Perché Il Capitale Umano è un buon film. Ed è giusto che il discorso che ho appena fatto non cambi di una virgola il giudizio del film.
Solo che è già arrivato Sorrentino, a raccontare altre vicende umane, esattamente di quel tipo, con uno stile che abbracciava tanto le nuove sperimentazioni, tanto quanto la tradizione.
Il capitale Umano era già vecchio quando è uscito nelle sale. E, questo sì, il giudizio del film, anche se di poco, lo cambia.
Regia e la fotografia sono buone ma nulla di eccezionale. Il punto di forza è la sceneggiatura, tratta dall'omonimo romanzo di Stephen Amidon. Ho adorato alla follia il personaggio di Serena.
Interpretazioni supersoniche. Su tutte quella di Valeria Bruni Tedeschi. Bentivoglio è sempre eccezionale anche se forse, stavolta, ha tirato un filino troppo la corda. Però sto parlando di sfumature, quindi questo punto sentitevi liberi di sorvolarlo.
Paolo Virzi' è diventato grande, come "grande" sta diventando il suo modo di fare cinema. "Il capitale umano" è un modo originale di raccontare la crisi economica del nostro paese e cio' che provoca all'interno di un nucleo familiare. Con gente disposta a tutto pur di apparire ancora a galla o chi investe il suo patrimonio affidandosi al classico "sogno Americano". Ottimo il montaggio e la scelta di raccontare la storia in tre capitoli diversi, questo rende il racconto ancora piu' affascinante e avvincente. Il tocco da noir è perfetto per aggiungere pathos. Poi ovviamente per la riuscita della pellicola c'è bisogno di un cast all'altezza... dalla conferma di Bentivoglio passano anchi altri attori molto in parte e ben caratterizzati. Ottimo.
Niente da fare, Virzì sa sempre dove mettere le mani, anche quando si cimenta con un genere non suo in una terra non sua: "Il capitale umano" è (al netto delle polemiche idiote leghiste) un film riuscitissimo, che scava nella psiche di personaggi amorali e miseri. Anzi, di più:
saranno proprio i personaggi più amorali e più miseri ad uscire vincitori, mentre i più puri (ma neanche tanto) continueranno, presumibilmente, a condurre esistenze difficili.
Era da tempo che non si vedeva tanta disillusione nel cinema italiano, e per giunta scritta e girata così bene: un grande applauso.
come già evidenziato da altri, quando devi dare un messaggio forte, serve un finale "forte" (alla Eastwood per intenderci)) . Se il film fosse finito con la scena di Luca che moriva, il gelo in sala era tale da generare iil senso di schifoverso un certo tipo di mentalità ed il film avrebbe avuto ancor più una valenza sociale (se ce la voeva avere ovviamente). Cosi è un pò troppo dolce, l'amore vince, i ricchi vincono, tutto sorrisi....peccato con un finale diverso, veramente un gran pugno nello stomaco sarebbe stato!!
Ho iniziato a guardare questo film, l'inizio mi sembrava davvero noioso poi tutti gli elementi si sono incrociati in modo fantastico, davvero geniale. Anche la suddivisione in capitoli del film aiuta moltissimo, tutti i personaggi sono rappresentati in modo completo, il regista merita davvero per questa trasposizione.
Intreccio narrativo in stile Traffic, Babel e non so quanti altri, che per quanto possa funzionare non da alcun valore aggiunto a una storia piuttosto scialba, fatta più di luoghi comuni che di contenuti, in cui si evince soltanto un forte cinismo.
Gran bel film, inferiore a "La grande bellezza" e molto più conforme al cinema italiano, ma anche una sferzata non indifferente verso l'Italia e gli "itagliani". La divisione in capitoli favorisce la costruzione di un mosaico complesso, allo stesso tempo però è fin troppo prevedibile dove andranno a parare le varie trame o sottotrame. In compenso, Virzì è un signor regista, alcune scene sono da antologia (la Bruni Tedeschi, molto brava e sempre con le zinne sovraesposte, che si identifica con la Mancinelli di "Nostra signora dei turchi" sul divano con Lo Cascio, con la nenia del "Ti perdono" ripetuta in continuazione). La struttura è cosi rigida che Virzì si serve del thriller sullo sfondo, trattandolo quasi come un accessorio cui ritorna di tanto in tanto e non come vicenda principale e punto di svolta della storia. Il capitale umano è proprio il ciclista investito: resta sullo sfondo, anche nel momento più terribile, mentre l'umanità viscida (Bentivoglio), complice (la Bruni Tedeschi), e allo sbando (la giovane Serena) si preoccupa più di difendere sé stessa o chi ama. Forse però la performance migliore in un casto sfruttato al massimo delle sue potenzialità la dà Fabrizio Gifuni, forse perché Bentivoglio, pur essendo bravissimo come suo solito, interpreta un personaggio fin troppo macchiettista ed esagerato che stona con il resto dell'umanità mostrata da Virzì. Polemiche prevedibili visto il modo in cui viene trattata per una scena breve la Lega, che poi è il nocciolo di ciò che sono questi barbari in giacca e cravatta (verde). Ma anche la Brianza sembra un paese gelido, inospitale, in tal senso le polemiche sono comprensibili, ma è pur vero che Virzì è tutt'altro che razzista, al contrario: la sua è una critica che fa male nel profondo soprattutto a loro, perché indirettamente li chiama in causa e sono i protagonisti volenti o nolenti del disfacimento culturale e morale della pellicola. Chi ha un pò più di intelligenza capirà che la Brianza è nient'altro che un'estensione dell'Italia intera e degli italiani. Ma Virzì, come Sorrentino, confida troppo nelle capacità dello spettatore medio che probabilmente ora sta pensando come fregare il prossimo, oppure si piazza sul suo palco del web a declamare la morte del teatro-cinema-letteratura, o peggio ancora è a cena dai Bernaschi. Buon appetito, mangiamo ancora la mèrda di pasoliniana memoria.
Come fa la macchina di Emanuele ad essere dietro a quella di Serena e ad ostrurine completamente l'uscita visto che lei arriva per ultima in soccorso al ragazzo che sta male?
Storie di personaggi appartenenti a diverse classi sociali si intrecciano nell'ultimo film di Virzì, dando luogo ad imprevisti risvolti drammatici. Dal trailer sembrava si trattasse di un film sulla crisi profonda che ha investito il nostro Paese soprattutto per opera di quella classe altoborghese che accentra la maggior parte del potere, invece qui i ricchi fanno una splendida figura:
Svanito ormai l'effetto-Sorrentino, Virzì (da sempre, anche per chi snobisticamente non ci credeva, sua controparte "leggera" anche se forse è il contrario) rincara la dose dell'amarezza italiana (e della sua intrinseca e, come tale, paradossale bellezza) e della follia. Lucida stavolta, non poetica come era per la Roma di Jep Gambardella. "Il capitale umano" più che essere un film sulla crisi, è un film nella crisi. Il Giova Bernaschi è lo sfondo impazzito e debordante su cui ruotano tante piccole storie di umanità sofferente e arrabbiata, dai vaffa isterici di Carla, dalla rabbia violenta e infantile del Massi a quella della buona Serena, fino a tornare alla rabbia istituzionale del primo uomo di questo film, un uomo qualunque travolto dalla oggettiva crudeltà del mondo. Questi personaggi meravigliosi sembrano scintille che si diffondono a partire dal movimento egoistico e frenetico di una trottola meccanica, sono brevi e fugaci quanto quelle scintille, ma sono lampi di luce che ci interessano di più di una trottola la cui rotazione (che deve continuare a girare per rimanere attiva, esattamente come il becero sistema del capitalismo milanese che ha scommesso sul fallimento di un paese intero) rende invisibile e incomprensibile l'osservazione della vera essenza di quel fenomeno. La vita del Giova non può essere interessante per uno scrittore di cinema, di storie, ma solo le vite che girano attorno al Giova, che ne sono macabramente attratte (come per l'arrampicatore Dino Ossola, o per Luca, buono, ma catturato dal fascino tremendo e vuoto delle "case dei ricchi") e che si sforzano di ritagliarsi un mondo privato che non sia toccato dal potere di rendere tutto "profitto": il caso del professor Russomanno, tanto macchiettistico (unici e sporadici casi dove rimpiangiamo la scrittura "pittorica" sorrentiniana) quanto economicamente veloce ad esaurirsi.
Stupisce di quanto angusto sia il mondo del Giova, rispetto all'enormità delle proprietà in cui ha "deciso" di condurre la propria esistenza, un'esistenza fatta di rituali sempiterni ("sorry", "I'm sorry"), di allusività condensata in un linguaggio inaccessibile e criptico, un'antilingua come un'antivita, un personaggio che per avere tutto deve sacrificare tutto alle ragioni del mercato finanziario, in cui l'amicizia spensierata del giocare a tennis in due è solo un pretesto per assorbire altro capitale, anche umano: "Quindi giova oggi niente partitina eh?".
Virzì è un regista che apprezzo in quanto sempre capace di migliorare la propria tecnica, la propria scrittura. Non lo ricorderemo come un genio del cinema, ma come qualcuno che ha detto qualcosa di un'epoca strana e decadente: insuperabile dunque diventa il montaggio, la fotografia, il missaggio sonoro, una colonna musicale new age piuttosto banalotta basata sul contrappunto concettuale con il vuoto di un giro per negozi a Milano, la sceneggiatura preparata con un meccanismo a orologeria impeccabile, attenta a caratterizzare, a eliminare il superfluo, il prevedile, lo scontato, il piacente, tutto quello che ci attendiamo da un film italiano di rito. No, nulla di banale nel nuovo gioiello di Virzì, ogni dialogo è un'ulteriore conferma del tentativo di costruirsi uno stile, un linguaggio che definirei un nuovo realismo. Un realismo che all'impalcatura ideologica della storia oppone la normalità di un piccolo pezzo di storie umane intrecciate, fotografate in gesti e pose quotidiane, e in questo quotidiano c'è il tempo per tutto, anche per un bacio estorto con la forza ma che chiude poeticamente un film che di poetico ha poco. Unica concessione al melò buonista rimane il sorriso dei due giovani amanti, quasi pratoliniani, tipico ending di un sentimentalismo all'italiana su cui però bisogna sempre indulgere con la tristezza mortale dei precedenti 110 minuti di film.
Al calore di un abbraccio tra una madre che si conquista il suo diritto, per quanto persona stralunata e "che non ci capisc[e] più nulla", risulta stupendo il contrappunto iniziale di un'insulsa morte di strada, in cui non si riesce a trovare un colpevole, come nella miglior tradizione dell'oggettivismo letterario (da Verga a Bunuel). Stringe il cuore di tutti quest'omicidio stradale di cui seguiamo i passi fino alla rianimazione, dove siamo fantasmi accanto alla moglie disperata, esattamente come Serena. Nel momento dell'impatto, vediamo la vita scivolare via da questo anonimo capitale umano che la letteratura e il cinema ci hanno restituito. Un istante per articolare le ultime imprecazioni di dolore, il gelo esistenziale di un non-luogo che le tinte fosche della solitudine di fronte alla morte, non di certo quelle della Brianza reale.
Ormai non serve più a niente nascondersi sotto km di corsivo e ridere di Paolo Virzì, il suo cinema sarà derivativo ma quando è costruito nel miglior modo possibile - un montaggio che persino i francesi si sognano - è tra i migliori prodotti italiani in assoluto. Finalmente la sua vena graffia veramente (e non suscita irritazione come in passato, cfr. tutta la vita davanti) ma è soprattutto la memorabile galleria di personaggi femminili, degna del miglior Monicelli, a convincere appieno. Tre donne di tre generazioni diverse (più o meno) sopraffatte o oscurate dall'amore, dalle ambizioni e dalle aspettative, davanti a un universo maschile alle prese con la crisi economica e il bisogno - orribile e magistrale in tal senso il personaggio di Gifuni - di mantenere uno status al di là di tutte le conseguenze. Penso sia incantevole soprattutto l'aderenza psicologica di Valeria Bruni Tedeschi, ora viziata mondana, ora moglie insoddisfatta, ora ancora artista mancata e amante occasionale, o madre sbagliata. Una gamma di emozioni che descrive apertamente - e chi può dire il contrario se non nella cieca posizione demagogica di un odio inerme? - la durissima crisi di una borghesia azzerata nella sua routine quotidiana. Bello, bellissimo, emozionante, mentre dipinge un mondo di castelli in aria dove vivere giovani significa lottare annientarsi o cercare la fuga. Altre cose mi sono piaciute meno (uno storico teatro in rovina, il personaggio inutilmente pseudo-sessantottino di Lo Cascio) ma "Il capitale umano" resta un film di primissimo piano nella storia del cinema italiano di questi anni, con una consapevolezza scenica e morale (le lacrime della Tedeschi, il dolce e amaro ritorno alla realtà dell'epilogo finale, la cialtrona spacconeria di un Bentivoglio quasi quasi vicino all'Alberto Sordi d'annata) che lascia sbigottiti
Paolo Virzì sorprende ancora una volta!....Storia coinvolgente e ben scritta. Il cast è imponente.....Dopo l'abbuffata di cinepanettoni e di boss in salotto, ci voleva proprio un grande film italiano sui mali della nostra società...Da vedere!