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Piccolo gioiello quello di Maddin che utilizza il Dracula di Stoker per imbastire un film in perfetto stile muto, miscelato con il balletto che si sposa perfettamente con la musica di Mahler in sottofondo. Visivamente valido sotto tutti i punti di vista e la figura di questo Dracula gipponese offre quel tocco di mistero ed esoticità sensuale alla storia. Un lavoro sperimentale ben riuscito con un soggetto cinematografico abusato e strabusato finchè si vuole, ma se il risultato è questo, ben venga.
Guy Maddin, esponente di rilievo del cinema sperimentale, da sempre attraverso le sue pellicole ricerca codici nuovi o, come in questo caso, fusioni tra linguaggi differenti. Nel ricercare il nuovo, però, si serve del vecchio; tutti i suoi lavori, infatti, hanno l’impostazione, in termini di regia, di fotografia e di montaggio, tipica dei film girati nelle prime decadi del ‘900 ed in particolare di quelli rientranti nel filone espressionista. “Pages from a Virgin’s Diary” in particolare, non può non ricordare “Nosferatu”, dato che si basa sulla storia del vampiro per antonomasia, quello di Bram Stoker; più precisamente questa pellicola si basa sull’adattamento per il Canada’s Royal Winnipeg Ballet, a cura di Mark Godden il quale dalle pagine riprese solo alcune delle scene chiave, anche se il film, nonostante le imposizioni, la storia originale la ricorda non poco. Fatto sta che il canadese partendo dall’impostazione suddetta in questo suo lavoro fonde il linguaggio cinematografico con quello del balletto, alternando sequenze danzanti alle quali lascia raccontare la lotta col vampiro, piuttosto che la corruzione graduale dell’animo di alcuni dei protagonisti, a sequenze che seguono la recitazione e gli stilemi narrativi tipicamente cinematografici. Certo, è vero anche che la recitazione teatrale del balletto ben si confà a quella altrettanto teatrale tipica dei film muti. Guy Maddin, tuttavia, va oltre e aggiunge elementi del tutto personali come l’uso centellinato del colore (il rosso del sangue viene reso oltremodo vivo, e risalta in modo volutamente eccessivo, anche perché vien fatto fuoriuscire sottoforma di vapore dando un’impronta quasi surreale alla sequenza) o le veloci sovrapposizioni di immagini al fine di raccontare in pochi secondi parti consistenti, nonché fondamentali per la comprensione, della storia; Il regista provoca e gioca anche con i testi che riportano i dialoghi (o parentesi narrative), ingrandendoli o diversificandoli; ancora, fa scorrere del sangue sull’inquadratura e, come se non fosse abbastanza, attribuisce un ruolo attivo anche all’entrata in scena dei personaggi, presentandoli come fosse una fiction.
Da un punto di vista meno tecnico, è doveroso aggiungere che non è certo facile abituarsi ad un tale linguaggio, a sua volta risultato della fusione di altri, e non sempre la pellicola risulta scorrevole, anche se, se molte sequenze risultano di forte impatto, è proprio grazie allo stesso (vedi l’entrata in scena danzante di Van Helsing) Il regista, inoltre, non manca di inserire qualche spunto critico attraverso questo suo Dracula (riproposto in versione “affascinante signore del male”, come Gary Oldman nel “Dracula” di Coppola) fatto di soldi.
Insomma, cinema sperimentale fatto ad arte, da un regista che su questo genere di cinema ha basato e continua a basare la sua carriera.