In una periferia sospesa tra metropoli e natura selvaggia, dove l'unica legge sembra essere quella del più forte, Marcello è un uomo piccolo e mite che divide le sue giornate tra il lavoro nel suo modesto salone di toelettatura per cani, l'amore per la figlia Sofia, e un ambiguo rapporto di sudditanza con Simoncino, un ex pugile che terrorizza l'intero quartiere. Dopo l'ennesima sopraffazione, deciso a riaffermare la propria dignità, Marcello immaginerà una vendetta dall'esito inaspettato.
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In una periferia romana da post apocalisse, vissuta da personaggi borderline immersi nella piccola criminalità e dove molto si deve ad una sorta di innominato e sotterraneo codice di rispetto verso gli altri, Garrone ambienta la sua storia nerissima dell'uomo da "una vita da mediano", il sottomesso, timoroso, piccolo Marcello, che deve destreggiarsi e cercare di sopravvivere tra le angherie di Simone e di questo mondo oscuro appena toccato dall'umanità.
Garrone ci racconta quindi l'accumulazione della rabbia anche nell'anima apparentemente più tranquilla (cerca di curare il suo "antagonista" dopo averlo colpito, reiterando il suo approccio come per quando salva il cane nel frigo), ma quasi da visione antropologica Marcello ha ormai interiorizzato e somatizzato il mondo derelitto in cui vive. La sua ambiguità non si muove infatti nella necessità vitale di farsi giustizia per non subire i maltrattamenti di Simone (un grande Edoardo Pesce), ma perchè da visione di sveviana memora vuole sentirsi veramente accettato da quelli del quartiere ("eri uno di noi", "mi vogliono tutti bene nel quartiere").
Garrone ci parla quindi della nostra società, dell'alienazione non data tanto dal lavoro come si sarebbe detto nei politicizzatissimi anni '70, ma da una generale condizione di abbandono, degrado, sconfitta sociale che si sostanzia infatti nell'inquadratura finale, dove sembra quasi di trovarsi nel "The road" di Cormac McCarthy.