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L'immagine degli operai che, ritmicamente, stendono l'asfalto sulla strada, la didascalia che si appella un po' enfaticamente alla frenesia e al disordine della vita moderna, e infine le inquadrature che, nel loro sghembo dinamismo (memori forse di "Sinfonia di una grande città"), illustrano il traffico caotico della città tentacolare, sono altrettanti trompe-l'oeil che cercano invano di distogliere lo spettatore da quella che è l'intima natura del film di May. "Asfalto" non è infatti un documentario alla Dziga Vertov o alla Walter Ruttmann, bensì un melodramma tutto sommato oleografico e convenzionale. Le velleità sociologiche vengono accantonate già dopo pochi minuti (a dire il vero non disprezzabili) di cinema-verità, e d'altra parte la vicenda dei due protagonisti non riesce mai ad elevarsi al rango di un'allegoria capace di riflettere simbolicamente lo spirito dei tempi. "Asfalto" sconta probabilmente un vizio di origine, quello di aver voluto a tutti i costi collocarsi nel filone realistico, cinematograficamente di moda, della Neue Sachlichkeit. Inquadrato in questa prospettiva, esso appare un film insincero e fallito, privo com'è oltretutto della capacità propria di un Pabst di sublimare una materia di poche pretese culturali e artistiche in personaggi (soprattutto femminili) di folgorante emblematicità. Betty Amann è sì ricalcata sul modello dell'indimenticabile Louise Brooks, ma il suo personaggio viene costretto (fatta eccezione per la brillante scena della seduzione, in cui la ragazza, saltando letteralmente al collo del goffo Albert, esprime un erotismo istintivo e animalesco) all'interno dello stereotipo della donna perduta provvidenzialmente redenta dall'amore di un giovane perbene (fino al prevedibile sacrificio conclusivo). Quello che allora di "Asfalto" merita di essere ricordato (perché nonostante tutto siamo di fronte a un'opera che qualche pregio indubbiamente ce l'ha) è non tanto la storia patetica e moraleggiante (che ha il suo picco emozionale nella scena in cui il vecchio padre, ligio al senso del dovere, mettendo dolorosamente da parte l'affetto per il figlio, lo dichiara in arresto), bensì lo stile fluido e vivace di May, il quale, avvalendosi di prospettive insolite, di mobili carrelli, di panoramiche in soggettiva (il protagonista che perlustra con gli occhi la stanza da letto di Elsa) e di un montaggio assai ben congegnato, è in grado per almeno mezz'ora di proporre del buon cinema, e non già una stanca e anodina ripetizione degli abusati luoghi comuni dell'Espressionismo e del Kammerspielfilm.
Ritenuto uno dei più importanti lavori espressionisti, "Asphalt" è una pellicola che mostra la sua parte migliore nella tragicità esasperata (ottenuta in gran parte grazie alla recitazione tipicamente teatrale) del quarto d'ora finale, in cui si respira tutto il pessimismo che caratterizza il genere, e che raggiunse, però, il suo apice 5 anni prima con "L'ultima Risata" di Murnau. La prima parte, invece, aldilà di qualche sequenza, si lascia ammirare più che altro nella fotografia, non riuscendo ad evitare, a mio avviso, una certa lentezza fine a se stessa.