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DOV'E' LA CASA DEL MIO AMICO? regia di Abbas Kiarostami

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kafka62     7½ / 10  26/02/2018 16:46:37Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
In un articolo apparso su Cineforum (n. 312, pag. 67), Emanuela Imparato, per introdurre il film di Kiarostami, prendeva spunto da un racconto di Franz Kafka, "La passeggiata improvvisa". Proseguendo questo gioco, apparentemente incongruo, di citazioni e rimandi, a me sembra doveroso richiamare almeno altri due brani dello scrittore praghese, "Il messaggio dell'Imperatore" e "Il colpo contro il portone": il primo per l'insuperabile, ontologica difficoltà (comune a film e racconto) di attivare una comunicazione qualsivoglia con l'Altro (sia esso un'entità trascendente o semplicemente il nostro vicino di casa), il secondo per la descrizione di un castigo immotivato o del tutto sproporzionato alla colpa commessa. Quest'ultimo parallelismo ci introduce alla connotazione inequivocabilmente autoritaria, repressiva, e al tempo stesso straniante, del mondo degli adulti quale rappresentato dal regista iraniano: a scuola i bambini vengono terrorizzati con paternalistico sadismo per cose da nulla (come dimenticare il proprio quaderno a casa di un amico), in famiglia vengono loro continuamente e ossessivamente intimate raccomandazioni assurde (ad esempio, togliersi le scarpe per salire le scale o comprare le sigarette al nonno anche se questi non ne ha bisogno). Ad essere chiamata in causa è la stessa tradizione (per altri versi contrapposta come termine positivo alla disordinata avanzata dei tempi nuovi), in quella gustosissima scena della conversazione tra due anziani del villaggio sull'educazione delle giovani generazioni, nel corso della quale viene auspicato e difeso il sistema pedagogico delle "botte" come l'unico in grado di portare sulla retta via i fanciulli indisciplinati. D'altra parte, il fatto che l'unico aiuto nel paese sconosciuto giunga ad Ahmad da un vecchio falegname, disponibile ed umano, è trattato ironicamente da Kiarostami, in quanto la sua esasperante lentezza risulta alla fine d'impaccio al bambino nel suo tentativo di trovare la casa dell'amico prima che scenda la sera.
Ancor più grave della subdola prepotenza che caratterizza il mondo degli adulti (vedi anche la sprezzante arroganza con la quale l'uomo con il mulo strappa una pagina del quaderno di Ahmad), è la totale incomunicabilità tra questi ultimi e i bambini. Il piccolo protagonista non riesce mai a farsi "ascoltare" dai grandi: la madre lo zittisce continuando a ripetergli meccanicamente "va' a fare i compiti", senza dare mai l'impressione di avere, anche solo distrattamente, udito le parole del figlio (ed è bellissima l'ingenua ostinazione con cui Ahmad continua a reiterare le sue preghiere per cercare – invano – di penetrare quel muro di indifferenza), mentre l'uomo sul mulo addirittura non lo vede, lo ignora come se fosse un fantasma. Nel film di Kiarostami non c'è un discorso immediatamente politico sulla condizione dell'infanzia nella società odierna, eppure esso dice tantissimo (e sicuramente più di molte serie ed accurate indagini sociologiche) sull'emarginazione che i bambini subiscono quando, in nome della gravità e dell'importanza degli affari dei grandi, viene loro tolta ogni voce in capitolo, salvo tornare utili nel momento in cui servono due braccia in più per lavorare nei campi.
Alla mancanza di comunicazione nei confronti degli adulti fa da contrappunto l'isolamento dei bambini fra di loro. Raggiungere un compagno di scuola che vive a pochi chilometri dalla propria abitazione è un'impresa improba, quasi impossibile. Tentare di stabilire questo contatto assume per ciò stesso un significato di ribellione all'assurdo sistema di vita che segrega i bambini nel contesto familiare o scolastico (non c'è una grande differenza tra la madre di Ahmad ed il maestro di scuola), negando loro qualsiasi possibilità di indipendenza ed autonomia. Ciò che alla fine emerge dal film è un anticonvenzionale e provocatorio invito alla solidarietà reciproca, magari clandestina, magari in palese contravvenzione alla Legge (familiare, sociale o religiosa, poco importa), perché l'unica soluzione è, come sosteneva anarchicamente Jean Vigo più di mezzo secolo fa nel suo "Zero de conduite", farla in barba ai grandi.
"Dov'è la casa del mio amico?" è un film dalla sintassi estremamente semplice ed elementare, sia dal punto di vista scenografico e cromatico, sia da quello della posizione della macchina da presa rispetto agli attori (con una netta prevalenza dei campi medi e lunghi). Eppure esso è cinematograficamente molto stimolante. In primo luogo, lo sguardo documentaristico del regista non impedisce a questi di fare, anche e soprattutto, della finzione: anzi, l'idea iniziale di sceneggiatura (facile ma non per questo meno azzeccata) fa assumere al film i connotati di una vera e propria detective story, con tanto di investigazioni (suggerite del resto dal titolo stesso), di pedinamenti (l'uomo sul mulo è creduto da Ahmad il padre dell'amico e perciò seguito a distanza) e di suspense (l'arrivo del buio fa temere il cattivo esito dell'impresa). Il ritmo è incalzante e rivela, nella sistematica eliminazione dei tempi morti, un'ottima capacità di raccordare le distinte sequenze tra di loro. All'esposizione chiara ed essenziale (ma mai semplicistica o schematica) dell'assunto giova altresì la presenza di personaggi facilmente riconoscibili e dall'inequivocabile spessore realistico. Il realismo della pellicola non permetterebbe però da solo di ottenere risultati apprezzabili se non ci fosse l'abilità di Kiarostami di creare delle atmosfere che (come nei migliori film dell'infanzia) vengono sentite anzitutto secondo la sensibilità soggettiva del piccolo protagonista (vedi a questo proposito l'arrivo dell'oscurità), e di introdurre con discrezione nella storia un tono civile che non cade mai, neppure nelle sue premesse teoriche, nel moralismo o nel didascalismo.