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IL RAGGIO VERDE regia di Eric Rohmer

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amterme63     8 / 10  04/01/2008 23:05:51Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Devo dire che sono rimasto colpito dalla capacità che ha questo film di ritrarre una condizione umana molto comune nella società di oggi, di farcela quasi toccare con mano. Ci fa capire che i drammi non sono solo sociali o collettivi, ma che anche le persone più banali nel loro piccolo si possono trovare ad affrontare problemi cruciali come la solitudine, l’insicurezza in se stessi, l’estraneità con il modo di vivere comune. A suo modo il film continua la tradizione del cinema esistenzialista, come pure testimonia la capacità tutta francese di riuscire a sviscerare e a descrivere i più sottili e vivi meccanismi dell’animo umano in maniera logica e razionale (l’esprit de finesse). Il pericolo del film sta nell’essere a volte forse troppo accademico e ripetitivo nei lunghi dialoghi, anche se comunque c’è sempre il sentimento vivo e bruciante dietro ogni parola o situazione di circostanza. Peccato solo per il finale forzatamente lieto e per i rimandi a coincidenze e fantasticherie (compreso il famigerato raggio verde) che tolgono drammaticità e banalizzano la storia.
Fin dalle prime battute si vede l’intenzione del regista di dare l’impressione di quotidianità e normalità. La protagonista Delphine è una donna sola, non ricca ma senza preoccupazioni economiche, non è né brutta né bella, non ha quindi particolare charme o attrattiva. Possiede però un animo molto sensibile e contraddittorio, che vive i problemi, ma che non sa come agire e venirne fuori. Il problema più grosso che si trova ad affrontare è quello della solitudine, legato a doppio filo con la sensazione interiore di essere “diversa” dai modelli comuni, quasi “inferiore” e inadatta. Vorrebbe aprirsi, ma il senso di inferiorità e di insicurezza la bloccano e lei reagisce frapponendo fra sé e il mondo tutta una serie di ostacoli autodifensivi: vuole e non vuole. I timidi e maldestri tentativi finiscono ovviamente per fallire, aumentando così la propria disistima e insicurezza. E’ come se si agitasse nelle sabbie mobili. I colloqui con gli amici che cercano di farla sfogare, di spronarla ad agire di petto non fanno altro che accentuare il suo chiudersi a riccio e il suo rifugiarsi nella “diversità”. Sembra facile, ma per chi soffre di malattia della volontà, di depressione, diventa un’impresa collossale e penosissima venirne fuori. Per fortuna ci pensa il pietoso regista che regala a Delphine l’incontro decisivo che lei riuscirà stavolta a non sciupare. Certo che è fin troppo facile affidarsi al destino, a una carta o ad un oroscopo, ma del resto chi soffre di queste malattie dell’animo si aggrappa a tutto pur di salvarsi.
Rohmer tratta questo argomento in maniera dimessa, senza enfasi, ma con grande acume e realismo. La macchina da presa resta spesso ferma in primo piano sui personaggi proprio per captare qualsiasi espressione o movimento banale e conoscere così come si comportano o si atteggiano, scavando a fondo nel carattere. La vicenda si svolge con successione di momenti topici, con ritmo lento e privilegiando appunto i dialoghi; comunque l’argomento rimane sempre lo stesso: la situazione interiore di Delphine.
E’ facilissimo quindi identificarsi in lei. Certamente chi si trova a vivere in una condizione di solitudine o “diversità” rispetto ai modelli comuni, vede sullo schermo se stesso e tutti i propri problemi sbattuti in faccia. Diventa quindi una visione che rimane dentro, che segna. Chi non ha condiviso questo stato d’animo troverà certamente il film noioso e prolisso. Io sono nella schiera di quelli che hanno “vissuto” il film e capito bene quello che provava Delphine.