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IL PADRINO regia di Francis Ford Coppola

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amterme63     9 / 10  23/03/2008 16:28:58 » Rispondi
Ora ho capito perché Il Padrino è considerato un capolavoro. E’ così abile e quasi perfetto nel suo andamento scenografico e nella resa visiva, che in pratica è diventato il modello di tutti i futuri film di azione prodotti da Hollywood e non. Coppola ha ripreso i modelli filmici del passato e li ha resi più attuali, più veri, più intensi e drammatici. Al centro ci sono sempre uno o più personaggi chiave, i quali si elevano sopra la media generale e assurgono al ruolo di “eroi”. Il nuovo sta nel renderli più “quotidiani”, più legati alla vita concreta. Si approfondisce e si analizza in dettaglio l’ambiente in cui agiscono, i loro comportamenti e le loro azioni e non viene nascosto niente che possa “urtare” o colpire a fondo la sensibilità dello spettatore. La novità maggiore è proprio questa: tutto diventa più drammatico e più serio che nel passato, la violenza fa il suo crudo ingresso in questo genere di film, con sangue e realismo.
Il perno del film è il dipanarsi logico e serrato dei fatti, centellinato nei suoi effetti emotivi sullo spettatore. Prima si presenta l’ambiente e i personaggi (la scena del matrimonio) e il loro modo di agire (grande importanza alla tradizione, alle forme, al valore della “famiglia” con la spregiudicatezza e la durezza con cui si mantiene il “potere”). Questa introduzione fa “identificare” lo spettatore nell’eroe, rende “accettabile” la sua logica e lo fa diventare quasi simpatico. Intimamente si parteggia per lui. Infine interviene uno sfidante (in fondo eticamente uguale all’eroe), sentito come “cattivo” e che rende emozionante la sfida, la quale procede in un crescendo drammatico senza esclusione di colpi. La situazione viene resa quasi disperata per preparare “il colpo di scena”, l’intervento inaspettato, la trasformazione improvvisa di un personaggio, il quale mostra doti eccezionali e “raddrizza” la situazione, con soddisfazione e appagamento in chi guarda.
Insieme a questo intenso altalenarsi delle emozioni, si dà allo spettatore uno spettacolo visivo di prim’ordine. La fotografia, il montaggio, le inquadrature sono da manuale. Si usano tutte le tecniche di ripresa con il predominio dei piani sequenza; le luci e i colori sono curatissimi. Vengono evitati però i virtuosismi perché la mdp deve assecondare le vicende e i personaggi, non sovrastarli.
C’è però un aspetto che Coppola non è riuscito a sviluppare appieno, secondo me, cioè quello dello scavo psicologico e interiore dei personaggi, soprattutto di Michael. In fondo tutti i personaggi hanno il loro carattere definito, ben presentato e illustrato, che rimane in pratica immutato e caratteristico dall’inizio alla fine, con due eccezioni: Michael e Vito, gli “eroi” del film. Il personaggio di Michael è quello più controverso e sorprendente. All’inizio viene presentato come una persona mite, dolce, gentile, estranea ai loschi traffici della famiglia, soprattutto a livello etico e interiore. Eppure quasi all’improvviso si trasforma in un gelido killer, in un freddo e spregiudicato “criminale”. Perché? Cosa è successo nella sua interiorità? Quali sono le sue ragioni etiche? Nel film viene spiegato, è plausibile quasi tutto, fuorché questa conversione. Coppola non ci aiuta. La mdp non “penetra” nel personaggio (pochi i primi piani in questo frangente cruciale, assente qualunque scena introspettiva o spiegazione diretta). La ragione apparente è l’affetto che Michael nutre verso il padre. La sua quindi sembra una reazione di affetto filiale. Il padre è il padre, anche se è un criminale e quindi bisogna aiutarlo e all’occorrenza sostituirlo (in contraddizione con la “presa di distanza” che aveva mostrato all’inizio verso la sua figura). La scena cruciale è quella della telefonata della fidanzata quando “si vergogna” a dire “ti voglio bene”: è un segno della conversione, non una spiegazione. Altra scena cruciale è quella dell’ospedale, forse l’unica scena “debole” di tutto il solido impianto scenico del film. Si tratta infatti di una “coincidenza” un po’ troppo fortuita. Infatti Michael arriva all’ospedale guarda caso proprio al momento giusto per salvare suo padre. E’ questa scena quella che certifica la “conversione” avvenuta. Al Pacino poi partecipa molto poco nel rappresentare questo rovesciamento interiore. Mantiene la stessa espressione dall’inizio alla fine, variandola semplicemente dal tenero al duro. Può darsi che questo “mistero” sia voluto, giusto per dare il margine di incertezza e interrogativo che intriga lo spettatore e lo coinvolge ancora di più nella storia, visti i risultati inaspettati ed eclatanti che ha questa improvvisa trasformazione.
Tutto questo contrasta però con l’interpretazione profondamente umana e sentita che Brando dà del personaggio di Don Vito. La sua è una recitazione superlativa, grandiosa. Rende il personaggio in maniera perfetta in tutte le sottigliezze espressive esteriori e interiori, dalla calma, all’imperio, al dolore, all’amarezza, al senso della fine. Niente da dire: fenomenale.
I significati che trasmette questo film sono tanti. Di primo acchito non si può fare a meno di rilevare la brutta figura che ci fa la società in generale. Tutte le istituzioni appaiono bacate e corrotte, tutto è regolato dal malaffare e dall’arbitrio di pochi “burattinai”. Impera il sopruso, la paura e l’avidità di potere e ricchezza. Eppure questa impressione perde il suo carico “sovversivo” per il fatto che si fa di tutto per far sentire questa storia come una “finzione”. Infatti la storia si svolge in un mondo che sembra isolato in sé stesso. Si dà ovviamente un’ambientazione storica, tutto si svolge come se fosse reale, ma il resto del mondo appare come assente, come inesistente, come un’insieme di simboli astratti che non hanno alcun ruolo attivo. Insomma si fa di tutto per far apparire il tutto come “immaginazione”, come un mondo a sé stante dove tutto diventa possibile e lecito.
Per questo il crimine, la violenza non sono più una piaga, un veleno, ma la regola, la necessità. Il mondo della mafia diventa così un mondo accettabile e “eroico”. Tanto più che si tenta di rendere nobile Don Vito e il suo mondo. Tutto sommato possiede dei principi “etici”; vuole evitare ad esempio la droga, la quale va a colpire giovani o studenti. Ha mandato suo figlio in guerra ed è orgoglioso che abbia difeso gli Stati Uniti. Addirittura alla riunione della cupola mafiosa, da un angolo spunta una bandiera americana (!).
Se si guarda bene, i valori che segue Don Vito sono un po’ gli stessi che sono alla base della società americana: famiglia, ideali (onore), proprietà privata. Soprattutto il personaggio di Michael rappresenta come si vorrebbe che fosse un “condottiero”, un “presidente”: una persona tutto sommato buona, di nobili sentimenti ma che in casi di emergenza tira fuori decisione, forza. Michael riprende tutti quei personaggi che appaiono all’inizio buoni, miti, idealisti e che sono portati dalle circostanze, dalle “emergenze” a rinnegare questi ideali e a usare invece metodi violenti e brutali, giustificati comunque per il fatto che il fine “è giusto”. Bisogna però dire che nel film alla fine non viene nascosto il suo cinismo e la sua ipocrisia, come ad esempio nella famosa scena del battesimo. Il finale è un po’ il simbolo della trasformazione ormai avvenuta, anche se in questa maniera la sua figura “eroica” non viene per niente scalfita, anzi. Il personaggio contraltare, cioè la moglie americana, appare oltremodo ingenua e debole per essere presa sul serio e non rappresenta un’alternativa allo strapotere della “forza” sul sentimento e sull’idealismo.
E’ insomma un personaggio multiforme, molto complesso ma non adeguatamente rappresentato come quello di Don Vito.
Questa è solo la mia opinione che ho cercato di spiegare in concreto a costo di essere prolisso e noioso. E’ una delle tante interpretazioni possibili di questo film fondamentale e visivamente sublime.