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BIG FISH - LE STORIE DI UNA VITA INCREDIBILE regia di Tim Burton

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Sybil_Vane     7 / 10  13/06/2013 15:15:35Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Il padre ama raccontare storie incredibili riguardanti la sua vita. Il figlio, ormai trentenne, non apprezza più. Il loro è il consueto conflitto generazionale che rende distanti, delusi, estranei. Il figlio non si riconosce in un padre che vive in un mondo di fantasia costruito a parole, il padre non si riconosce in un figlio così ancorato alla realtà di tutti i giorni. I due non si parlano da anni quando il figlio riceve la notizia: al padre resta poco tempo da vivere. Così, il figlio corre al capezzale del padre e il loro delicato rapporto viene prevedibilmente rimesso in discussione.
Niente di nuovo sotto il sole, si dirà. Ma "Big Fish" non è la solita storia di pentimento e redenzione: il risanamento del rapporto padre-figlio è il pretesto usato da Burton per dare libero sfogo alla più sfrenata fantasia, imbastendo un racconto atipico e plasmando un mondo, quello narrato, popolato da creature insolite e divertenti. "Big Fish" è il trionfo dell'immaginazione. E' l'ordinario che legittima lo straordinario, o lo straordinario che guarisce l'ordinario. E' una favola, anche nel senso più convenzionale del termine, perché si serve di tutti gli elementi canonici del genere alterandoli e de-normalizzandoli: c'è il padre-eroe (uno strafottente Ewan Mc Gregor da giovane, un appassionato Albert Finney da anziano), fiore all'occhiello della religiosa cittadina di Ashton, Alabama. L'eroe è belloccio, intelligente ed eccelle in tutto (che noia). La sua vita però non lo soddisfa: vuole fuggire da una realtà in cui è osannato ma che gli sta stretta, e questo desiderio di evasione coincide con le sue – poco eroiche – ambizioni ("I was intended for larger things", Sono stato destinato a cose più grandi). Dopotutto, non si offre di salvare la città dal gigante per una qualche nobiltà d'animo, ma lo fa perché è l'unica maniera di scappare lontano.
C'è la bella (la graziosa Alison Lohman del passato, la splendida Jessica Lange del presente), promessa sposa al rivale, che non è né docile né indifesa, ma intelligente ed indipendente. C'è il rivale appunto, l'amico d'infanzia invidioso e irascibile, il fidanzato della bella che però esce di scena in modo molto poco favolistico. E poi ci sono i mostri, che mostri in realtà non sono: un gigante, due gemelle siamesi, il bassissimo direttore di un circo itinerante (un inconfondibile Danny De Vito, il cui cameo è, insieme a quello di Steve Bushemi, uno dei più riusciti).
"Big Fish" è dunque una favola rivisitata, un apologo della fantasia godibile anche se non esaltante, che tocca picchi di notevole creatività (il montaggio poco lineare come poco lineare è la storia; il finale a sorpresa, da occhi lucidi, che ripercorre l'intera vicenda; la sequenza del colpo di fulmine tra l'eroe e la bella), ma che allo stesso tempo indulge in artifici retorici che appesantiscono la narrazione (la musica eccessivamente celebrativa, anche nel finale; l'inconcludenza di alcuni dialoghi; l'uso a volte troppo insistito della voice over).
La matrice burtoniana è presente in senso lato: "Big Fish" è un'opera di fantasia sulla necessità di fantasia. Ma il vero Burton qui, quello delle atmosfere fosche e dai finali non sempre positivi, smussa la sua indole dark per ripiegare sul gentile e sul delicato. L'impresa riesce con relativi meriti (il film riscuote un notevole successo di pubblico), ma il cinema del regista perde il suo tratto distintivo per accostarsi ad un "criterio visivo" più maturo, ma sicuramente meno personale.