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PRIMO AMORE regia di Matteo Garrone

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kafka62     6½ / 10  09/03/2018 11:42:47Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Insieme a "L'imbalsamatore" questa pellicola di Garrone forma una sorta di dittico sul desiderio patologico e autodistruttivo, il quale scava nelle pulsioni più morbose nascoste sotto la superficie dei rapporti amorosi con una forza tanto più originale e ricca di novità (tematiche, figurative, stilistiche) quanto più risulta vicina – almeno nel soggetto di partenza – a banali fatti di cronaca recentemente accaduti. Assimilazione attenta della realtà e sua decantazione in apologhi di fredda, icastica e torbida bellezza accomunano i due film, a partire dalle professioni dei protagonisti (taxidermista l'uno e orafo l'altro, e credo che, nonostante l'attenzione e la curiosità con cui la macchina da presa li metta in scena nei più minuti e misconosciuti dettagli, non vi siano dubbi sul fatto che entrambi i mestieri siano in qualche modo simbolici, quasi delle ipostasi dei caratteri dei due uomini) fino ad arrivare all'inevitabile e straordinariamente simile morte violenta. Cambia l'area geografica in cui i film sono ambientati (là Napoli, qua la provincia veneta), ma non l'impressione di realtà che si respira nei dialoghi in presa diretta e nei volti di attori bravissimi ma del tutto sconosciuti. Siamo comunque lontanissimi da un cinema minimalista, cronachistico, documentario, appiattito sulla riproduzione sociologicamente precisa del reale, perché Garrone è un regista che sa trascendere i comuni e triviali ingredienti di base per confezionare – metaforicamente parlando – piatti di altissima cucina.
Quel che non riesce al protagonista Vittorio, conciliare cioè il corpo con la testa, riesce invece, da un punto di vista cinematografico, a Garrone: nel suo film infatti la forma si sposa molto bene al contenuto, consentendo di raggiungere esiti artistici notevolissimi. Scene come quella del colloquio sul lago, in cui i volti di Vittorio e Sonia (non semplicemente piccoli dettagli, ma l'intero viso) sono fuori fuoco, mentre vediamo nitidamente lo sfondo, sono, oltre che belle, necessarie, in quanto i due personaggi sembrano quasi ridotti a presenze fantasmatiche e irreali, completamente avulse dalla realtà che li circonda. Che dire poi della scena dell'amplesso, in cui la cinepresa è talmente attaccata ai corpi da cogliere, astraendoli dal resto, particolari sorprendenti come le vertebre in rilievo sulla schiena arcuata della ragazza. La storia del rapporto tra Vittorio e Sonia non è poi solo quella tra un aguzzino e la sua vittima, perché l'uomo ha una profonda, sia pure distorta e schizofrenica, umanità e non riesce mai ad apparire veramente detestabile. Si riesce così a comprendere meglio l'attrazione, e di conseguenza la sottile complicità, che fanno imboccare a Sonia un tunnel che – lo si intuisce chiaramente, ma solo dal di fuori, dalla poltrona di un cinema – non può avere alcuna via d'uscita normale. L'ambiguità del rapporto vittima-carnefice era già stata messa in scena altre volte al cinema, con esiti anche pregevoli ("La passeggera" di Munk, "Portiere di notte" della Cavani), ma mai – credo – con tali e tante sfumature, che non escludono neppure (come nella sequenza del ristorante) il registro comico, sebbene il tono di fondo sia quello, doloroso e sofferto, di una tragedia, che la camaleontica prova d'attrice di Michela Cescon (capace di percorrere al contrario la strada di De Niro in "Toro scatenato", cioè di dimagrire nel corso delle riprese di quasi quindici chili) riesce a rendere incredibilmente coinvolgente e disturbante.