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THE FLAT regia di Jan Svankmajer

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Invia una mail all'autore del commento Steppenwolf     9 / 10  06/09/2010 22:59:13Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Corro il rischio della sovrainterpretazione e tutto il resto, ma non è forse un'opera d'arte destinata(e talvolta finalizzata!)ad una presentazione di materiale scomposto da poter essere conquistato dallo spettatore e ricostruito nella maniera più opportuna?
Molti hanno paragonato questo splendido cortometraggio a "Film" di Alan Schneider: stesso senso d'oppressione e di smarrimento esistenziale.
Vero: ma le similitudini non sono nemmeno così tante a mio avviso.
Nel cortometraggio di Schneider e Becket l'alienazione era tutto sommato autocompiaciuta, era ricerca, era volontà del nulla... qui vi è una rappresentazione totalmente kafkiana e perturbante dell'esistenza(il finale a mio avviso chiarisce questo punto).
Nel caso di The Flat la trama la si potrebbe riassumere come una rappresentazione della vita di un uomo solo che vive un rapporto conflittuale con la realtà, con gli oggetti.
Fin qui niente di nuovo, si potrebbero benissimo fare paragoni con Chaplin o con il miglior Keaton de "Il navigatore": vi è una disgiunzione tra l'oggetto in sé e la funzionalità per cui esso è concepito.
Svankmajer - chi lo conosce capirà subito quello che intendo(ritiene gli oggetti inanimati più "vivi" di quanto non siamo noi, in un certo senso) - nel corso della sua carriera ha spesse volte illustrato questa conflittualità rielaborandola in chiave differente. Laddove la conflittualità tra gli oggetti/realtà e gli uomini in Keaton e Chaplin erano meri strumenti ironici che velavano un discorso sull'alienazione umana(spesso motivata anche da ragioni sociali, come ne "Il navigatore", oppure nella rappresentazione dell'alienazione in "Tempi moderni", mostrandoci un uomo ridotto anch'esso a strumento, oggetto), in Svankmajer gli oggetti prendono letteralmente vita e dove c'è vita c'è conflittualità, come mostrato da Jan nel suo cortometraggio più famoso, Dimension of Dialogue.
In pratica gli oggetti non sono più strumenti del reale che si ribellano nella loro funzionalità, bensì forme di vita vere e proprie che contendono con l'uomo in maniera vera e propria.
Eppure se un paragone può essere fatto, a me ha ricordato più Keaton che non Chaplin. La disfunzionalità degli oggetti è rivelata - come ha perfettamente notato The Gaunt - dalla loro alternativa usufruibilità.
Riassumendo, gli oggetti perdono la loro essenza relazionale, perdono cioè la loro funzione predominante, ma - proprio come se dotati di una propria essenza - divengono utili quando scardinati da questa loro presupposta usufruibilità di partenza.
Fatta questa parentesi, questo The Flat è un film che potrebbe benissimo essere analizzato come un saggio sull'alienazione ed è un vero è proprio piece di surrealismo(anche la comparsa straniante di un uomo con un pollo che porge un'ascia al protagonista, che scopriremo chiamarsi Josef).
Ma le frecce a cosa conducono? Le frecce, segni per eccellenza, perdono qui il loro valore indicativo prettamente indicativo. La meta cui esse conducono è infatti sconosciuta al protagonista stesso, che si ritrova al centro di un disordine esistenziale, di una caotica rappresentazione della realtà in cui gli oggetti perdono la loro funzione caratterizzante(salvo poi riscoprirne altre, non associabili in genere ad oggetti simili, come sbucciare una mela con un cacciavite...), la realtà è in rivolta e le frecce non conducono da nessuna parte.
Nessuna speranza di contatto arriva neanche dall'unico uomo che compare nel film insieme al protagonista, quello con la gallina: con un cenno della mano lo invinta a seguirlo. Nessuna spiegazione... gli porge un'arma e se ne va. Al protagonista non resta che sfondare la porta e poi saprà quello che fare.
Il finale è, neanche a dirlo, chiaramente pessimista. L'uomo, nella sua tragica dimensione quotidiana, nella sua miseria, nella sua grandezza, non è altro che un nome scritto tra tanti nella storia. Il cognome di Josef non ci verrà rivelato... cosa importa d'altronde? In quella stanza dove nasciamo, cresciamo, ci nutriamo, dove sperimentiamo il conflitto con la realtà, con l'altro(che non ci aiuterà certo a capire un bel niente... si limiterà a porgerci ancora una volta inutili oggetti... non c'è spazio in Svankmajer per una vera e propria comunicazione tra individui... si tratta di dimensioni differenti), non siamo i primi, né gli ultimi ad esserci vissuti. Solo un nome su un muro, unica traccia della nostra esistenza, destinata forse ad essere in futuro sovrapposta da altri nomi, da altri volti, da altre esistenze, nella loro tragica banalità.