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FIGHT CLUB regia di David Fincher

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amterme63     6½ / 10  16/04/2008 23:10:29 » Rispondi
Purtroppo sono rimasto un po’ deluso da questo film. Ho avuto l’impressione che il regista avesse avuto a disposizione un testo (il libro di Paliahnuk, che non ho letto) dalle grandi potenzialità, ma che non sia riuscito a tradurlo efficacemente in immagini. Secondo me non ha saputo imprimere al film uno stile originale, limitandosi a seguire alcuni modelli già affermati (il genere pulp di Tarantino, mescolato con il genere supereroico filosofeggiante alla Matrix) o i soliti stereotipi tradizionali di Hollywood (tipo i film di guerra in cui si esalta il cameratismo virile a costo di sfiorare l’omosessualità). Le vicende sono inverosimili e esagerate, un po’ come nei film pulp; manca però l’ironia e la parodia che sono le grandi doti di Tarantino e quindi non si sa se prendere quello che si vede sul serio oppure no. Le azioni si susseguono a ritmo frenetico (anche troppo veloce), ma sono rese tutte allo stesso modo tanto che non si può fare a meno di sentire il tutto come qualcosa di prolisso e ripetitivo. Rimane in ogni caso un documento molto chiaro del genere di film in voga negli anni ’90 (ante 11 settembre 2001), utile per capire il “grande vuoto” in cui si era cacciato all’epoca il sentire comune culturale, soprattutto americano.
Una caratteristica del film (molto diffusa all’epoca) è quella di concentrarsi sulle peripezie movimentate di un solo personaggio-individuo-modello-eroe; la realtà, la società, le relazioni sociali ed economiche spariscono o rimangono sullo sfondo come semplici comparse stereotipizzate. Lo scopo “nobile” è quello di rappresentare la profonda crisi etica e di valori che colpisce la società occidentale (soprattutto l’americana). Si vuole inoltre denunciare il sorgere di forme di disgregazione della vita civile e la voglia di compiere atti di violenza e di distruzione agli ordini di un “uomo forte”. La resa stilistica rovescia invece questo intento. Il personaggio “negativo” viene messo in rilievo, reso attraente, affascinante, forte, deciso, di successo. Gli va tutto bene, le sue imprese hanno sempre successo. Va a finire che si parteggia per i suoi atti distruttivi e per i suoi comportamenti sconvenienti. Essere freddo, cinico, insensibile, imperioso diventa così un “blasone”, un modello da seguire. Diciamo che è una costante del cinema hollywoodiano a partire dal Padrino in poi. Senza ipocrisie si fa vedere quanto sia bacato e sbagliato il mondo in cui viviamo, ma nei fatti si trasmette il messaggio che questo è l’unico mondo disponibile e possibile e che quindi non resta che seguire in piccolo il modello dell’eroe negativo di successo. Serve anche in un certo senso a dirigere la “rabbia” e a far sfogare le frustrazioni del vivere moderno verso il prossimo o gli oggetti del vivere collettivo (visti tutti come esseri passivi, banali e senza valore – vedi anche “Natural Born Killers”), invece che indirizzare la ribellione verso i grandi potentati politico-economici (i pilastri del sistema stritola-individuo) come avveniva fino al 1968 (vedi “Zabrinski Point”).
Mi sembra di capire che probabilmente si è travisato il significato originale del libro, che era forse quello di avvertire che il mondo “occidentale” stava andando verso un’imminente autodistruzione causata dal grande vuoto di valori. In ogni caso Paliahnuk aveva indovinato quello che si stava preparando. L’immagine finale fa venire i brividi da quanto è simile al disastro dell’11 Settembre. Un film del genere, dopo quella data, non sarebbe stato possibile girarlo.