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LUDWIG regia di Luchino Visconti

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kafka62     7½ / 10  27/04/2018 10:52:34Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
La figura di Ludwig II, re di Baviera dal 1864 al 1886, è il trionfo del kitsch più sfrenato ed eccessivo: la sua esistenza condotta all'insegna dell'estetismo (da lui innalzato a valore assoluto e perseguito con una maniacale attività di mecenatismo culturale), le sue gigantesche costruzioni, barocche e deliranti (veri e propri monumenti all'inutilità), la sua folle immedesimazione con gli eroi delle creazioni artistiche, tutto ciò sta a testimonianza di una personalità abnorme, fuori del tempo e della Storia. Con questo film della sua tarda maturità, Visconti tenta la difficile e rischiosa impresa di trasformare il kitsch in opera d'arte. Se in qualche modo l'operazione può dirsi riuscita, ciò è dovuto soprattutto all'identificazione stabilita tra forma e contenuto: l'estetismo, la teatralità e il decadentismo del film si sovrappongono infatti all'estetismo, alla teatralità e al decadentismo della vita di Ludwig, e questa corrispondenza preserva la pellicola da possibili accuse di formalismo e di oleografia. Nel raccontare la storia di questo ultimo, anacronistico, eroe romantico, Visconti si trova perfettamente a suo agio, in quanto la sua inclinazione per la letteratura e la musica tedesche e per i temi della cultura fin de siécle (il fascino della morte, il culto della notte, l'omosessualità, ecc.) ha modo di sfogarsi ancor più che in opere come "Morte a Venezia" o "La caduta degli dei".
Ludwig è un esteta, un cultore del bello, che ha anteposto le ragioni dell'arte a quelle della vita. In lui Visconti ha descritto l'eterno conflitto tra arte e realtà: l'arte non sarebbe in fondo nient'altro che il tentativo di creare una realtà parallela, artificiale, al riparo dalle disarmonie e dalle contraddizioni del mondo. Si tratta chiaramente di un'illusione, di un sogno, e difatti Ludwig stesso si definisce un uomo "libero di cercare la felicità nell'impossibile". Ma la realtà, che si vorrebbe rifiutare e respingere, incalza prepotentemente l'individuo con le sue ineliminabili esigenze: non si può ad esempio far finta, come pretende Ludwig, che la guerra non esiste semplicemente perché non la si è voluta. Ludwig è pertanto destinato a soccombere, a venire impietosamente fagocitato dagli eventi della Storia.
Nel film mancano quasi del tutto gli aspetti sociali dell'epoca, giacché la macchina da presa, così sollecita nell'avvolgere i personaggi in estenuati primi e primissimi piani, non esce mai dal ristretto ambito della vita di corte. Anche in questo caso c'è però una precisa giustificazione, dettata dall'isolamento del sovrano, dalla sua volontaria reclusione in un mondo artificiale e fittizio, dalla sua solitudine di intellettuale ante litteram rinchiuso nella sua esclusiva torre d'avorio. In Visconti non c'è un atteggiamento critico nei confronti di Ludwig, ma al contrario uno sguardo pieno di nostalgia per un gusto della bellezza che si è definitivamente perduto, per una concezione dell'arte totalizzante e fine a se stessa ma a suo modo perfetta. Assumendo questa posizione dichiaratamente retrò, il film di Visconti rischia di subire la stessa sorte del suo protagonista: avulso tanto dalla contemporaneità quanto dalla rivisitazione critica della Storia, "Ludwig" finisce per essere un'opera pletorica, megalomane e tutto sommato anacronistica. Di essa colpiscono soprattutto certe fascinazioni figurative (come le distese innevate di Bad Ischl, sede degli incontri con Elisabeth, o l'orgia "tirolese" coi servi, che ricorda la festa delle SA ne "La caduta degli dei"), alcuni straordinari personaggi (su tutti l'Elisabeth interpretata da quella meravigliosa attrice che è Romy Schneider, la quale trasforma la "principessa Sissi" di tanti anni prima in una donna orgogliosa, indipendente e appassionata) e l'ambientazione scenica nel suo complesso (curata come al solito fin nei minimi dettagli e capace di restituire in ogni inquadratura l'impressione di una greve atmosfera di disfacimento morale).
Film fastoso e a tratti magniloquente, "Ludwig" è condizionato dalla smisurata ampiezza dell'impianto narrativo. La scelta di ordinare la vicenda sulla falsariga di una pseudo-inchiesta tesa ad accertare la salute mentale del re (i racconti dei testimoni, ripresi bergmanianamente su sfondo nero) è perfettamente condivisibile, e probabilmente necessaria per legare tra loro in maniera coerente ed omogenea i vari episodi in cui il film si struttura, ma l'effetto finale è pur sempre quello, algidamente raffinato, di uno sceneggiato televisivo di classe. C'è inoltre in "Ludwig" una estrema dilatazione delle sequenze, per mezzo della quale sul consueto, convenzionale avvicendarsi di alti e bassi drammatici della storia si sostituisce un andamento più lineare e monocorde, una sorta di funerea parabola verso l'annientamento finale. Questa impressione è accentuata ancor più dall'ottima recitazione di Helmut Berger, il quale rende progressivamente il suo personaggio, in maniera quasi indistinta, sempre più torpido ed "alienato", e dalla fotografia di grande impegno luministico di Nannuzzi, che sui colori chiari e vivaci dell'inizio (le luci del circo, il bianco della neve) fa via via prevalere tonalità cupe e morbose (il rosso dell'orgia, i colori artificiali di Linderhof), fino al lugubre nero della splendida, lunghissima, sequenza finale, con la notte piovosa solcata da decine di fiaccole che perlustrano silenziosamente le rive del lago in cerca del corpo di Ludwig.