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L'ASSEDIO regia di Bernardo Bertolucci

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kafka62     6 / 10  26/04/2018 11:29:51Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
"L'assedio" è, per molti versi, un film specularmente opposto al precedente e bellissimo "Io ballo da sola". Se quello era un film corale e collettivo, questo è concentrato ossessivamente su due soli personaggi (la realtà esterna è assente in entrambi, ma ciò è giustificato forse più nel primo, girato in un bucolico casolare toscano, che nel secondo, di ambientazione capitolina). Quanto quella, poi, era una pellicola solare e ariosa, tanto questo è claustrofobico, con la macchina da presa restia perfino a mostrare dei campi totali dell'appartamento (per non parlare di Piazza di Spagna, esibita nella sua interezza solo nelle ultime inquadrature, illividite peraltro dalla grigia luce dell'alba). Se infine quello era addirittura esuberante nella sua ricchezza di tematiche affrontate o solamente accennate (il rapporto tra giovani e adulti, l'amore, la sessualità, il passato, la malattia, la morte), questo è algidamente e maniacalmente ripiegato sul semplice racconto di un'ossessione amorosa.
Quanto tutto ciò incida in termini di qualità artistica e di valori estetici è presto detto. Lo stile di Bertolucci è sempre elegantissimo e formalmente ineccepibile (semmai si nota un adeguamento ai più moderni canoni della grammatica cinematografica, che prevedono un montaggio singhiozzante e sincopato e inquadrature spesso e volentieri instabili e traballanti), ma, a forza di ambiguità, di simbolismi e di ellissi, la storia (che peraltro si basa su uno spunto interessante, metà cristiano e metà buddista, la convinzione cioè che bisogna spogliarsi di tutto per poter dare amore, bisogna saper rinunciare alla vita per poter vivere) non riesce mai a essere davvero coinvolgente. Del personaggio di mister Kinski e del suo passato, ad esempio, non si sa nulla, ma questo, anziché conferire pathos o mistero, sembra solo un espediente funzionale all'esplicitazione di un'idea astratta. Così, la sua sorprendente e inattesa dichiarazione d'amore a Shandurai cade fatalmente nel ridicolo, apparendo più un capriccio infantile o il desiderio di un maniaco che lo sbocco inevitabile di un amour fou. Anche la prova d'amore di mister Kinski, che culmina nella vendita dell'amato pianoforte, ci lascia inspiegabilmente freddi e distaccati, come il pubblico di bambini che lo ascolta distratto nell'ultimo concerto, forse intuendo che l'uomo (così come, forse, il regista) non sta suonando per loro.
Insomma, da qualunque parte lo si guardi, c'è sempre un qualcosa, non necessariamente esprimibile a parole, che suona falso o stonato. Una patina di algido e sterile estetismo avviluppa tutto il film in spire talmente strette da soffocarlo, e in fondo i momenti migliori risultano essere quelli in cui la ricerca di un'autorialità a tutti i costi appare meno evidente, come in alcune violente dissonanze sonore (la musica di mister Kinski sovente interrotta dallo squillo di un telefono o di un campanello, o coperta dal suono di un aspirapolvere o di una radio che suona rock africano) o in sequenze di gratuita libertà creativa (il liberatorio gioco funambolico con le arance e le mele).