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A SNAKE OF JUNE - UN SERPENTE DI GIUGNO regia di Shinya Tsukamoto

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Guy Picciotto     9½ / 10  13/09/2009 18:31:12Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Si è tanto discusso sul lavoro dei vari Cronenberg e Tsukamoto, sul logos che caratterizza la loro ricerca filmica, un tentativo di vivisezione della carne in rapporto alla macchina ed alla tecnologia, ad un utopica fusione ballardiana tra uomo e macchina a livello biologico, ebbene l'esperienza tenderà sempre più a rimuovere l'immediatezza della dimensione carnale e a valorizzare invece l'insieme delle pratiche e delle operazioni che sembrano realizzare la trascendenza dell'uomo tecnologico rispetto ai processi naturali.
Se vi ricordate, con Tetsuo "l'uomo macchina" Tsukamoto giocò allo scoperto rispondendo alla provocazione non più tanto utopica di quel videodrome cronemberghiano e spinse totalmente verso quella fusione tra uomo e macchina, a distanza di tanti anni, nel 2002 firmando l'altro suo capolavoro "a snake of june" più che sull'immediatezza carnale, Tsukamoto porta la riflessione semantica a livelli iper-metaforici, risprofondando nella carne solo dopo un lunghissimo viaggio di formazione, secolarizzato, distorto quanto volete, ma sempre ipermediato dalla consapevolezza del reale. Non c'è niente di immediato in questo film: le stesse pulsioni istintive e a-razionali sono metaforizzate in immagini postmoderne.
L'atto sessuale come serie di scatti fotografici, il seno femminile, fecondità rinascita e eterna giovinezza, inquadrato nell'incubo senza fine che si intrufola a poco a poco in un yakuza movie sconclusionato, scardinandone ogni schema narrativo; l'uomomacchina tetsuiano; il passare di immagine a immagine, di testo in testo, tutto questo è frutto più di una fortissima riflessione su di sé, virata su temi leggermente sfasati rispetto a quelli classici occidentali, per di più sotto forme narrative in parte estranee al destinatario occidentale, ma soprattutto estremizzata come qui da noi non si ha il coraggio di fare.
Non è allora la "purezza", quella che ritroviamo nel cinema giapponese di un Tsukamoto, ma il prototipo di una specie di processo hegeliano dei contenuti istintuali che, dopo essere passato per i due rapporti inferiori, quello "puro" e naif e quello negativo del rigetto dall'altro da sé (che pure fa parte di sé), ormai lo ingloba tutto in se stesso, diventando autoconsapevole e metabolizzandolo fino in fondo all'interno di processi cognitivi del tutto razionali.
Dunque: il relativismo all'eccesso, piuttosto che l'immediatezza. La "sostanza e il sangue" non sono che le estreme conseguenze dei due mondi, quello razionale e quello istintuale, finalmente riconciliati in un film dalla totale spudoratezza estetica, in un bianco e nero con tendenze bluastre costanti per tutta la pellicola, dove sesso e malattia, mutilazioni e mutamenti sono un tutt'uno con un erotismo che gioca con l'inesorabile decadenza del corpo umano, dato che l'uomo di sola carne tukamotiano è ormai decaduto, parliamo di post-erotismo allora, vissuto dal cyborg-telespettatore che si masturba (il marito nel film), interfacciato dal video (la moglie), immortalata dal terzo elemento fuori campo, ovvero la macchina fotografica.
Si è parlato a proposito di questo grande film come della degna risposta giapponese ad 'Eyes Wide Shut', e non sono d'accordo dato che a livello non di contenuti (su questo forse siamo nello stesso campo da gioco) ma di regia siamo molto distanti, ossessiva e febbrile quella di tsukamoto, estetizzante nelle carrellate e ipnotica nel distendersi costante per tutte le 2 ore e mezzo quella dell'ultimo grande kubrick.