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IL DIARIO DI UN CURATO DI CAMPAGNA regia di Robert Bresson

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amterme63     9 / 10  28/12/2007 23:36:10Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Molto affascinante e profondo. Porta alla ribalta una storia particolare, non facile da interpretare. Un giovanissimo curato prende possesso della sua parrocchia nella povera campagna francese. Si tratta di un’anima molto tormentata e che vive totalmente di spirituale, tanto da trascurare tutto ciò che è materiale, compreso il proprio nutrimento. Si ciba infatti solo di pane e vino (guarda caso i simboli dell’eucarestia). Qualsiasi pensiero o azione è sottoposto a riflessione e sviscerato nel suo significato religioso, tanto da diventare quasi un tormento continuo che lo porta in pratica ad autodistruggersi. Interagisce con poche persone fra cui il curato di Torcy, che rappresenta invece l’aspetto più terreno della vocazione religiosa. E’ infatti un bel prete tondo e rubicondo, di carattere energico e pratico. Ci sono poi una serie di presenze femminili conquistate dal fascino (anche profano) che promana il giovane curato, fra cui Chantal, la figlia del Conte, presa anche lei da un sentimento fortissimo, ma di natura opposta rispetto a quella del curato (voglia di passioni forti e intense di natura terrena). Completa il quadro la Contessa, ossessionata dalla perdita del figlio e un vecchio medico ateo anche lui tormentato dalla mancanza del suo lavoro. Entrambi faranno una brutta fine.
Questa storia può essere vista in due modi diversi. Uno puramente religioso e serve per esaltare e nobilitare una grande figura che ha seguito fino in fondo i dettami di Dio, fino a sacrificare il proprio fisico per la fede. Il nucleo centrale di questo aspetto è il colloquio fra il Curato e la Contessa, in cui si proclama la volontà di Dio come volontà assoluta a cui occorre conformarsi nel bene e nel male, le disgrazie come prove di forza per poter comunque andare avanti nella strada disegnata da Dio. E’ questo l’atteggiamento che sosterrà il Curato fino alla fine.
L’altro modo di vedere fa apparire il film come una critica sottile alle ossessioni maniacali, compresa quella spirituale del Curato, anche se la storia tende a esaltare questa figura. E’ la stessa operazione stilistica di Goethe nel romanzo “I dolori del giovane Werther”. Non a caso vengono accostati al Curato le altre figure del medico, di Chantal, della Contessa; tutti con la loro ossessione, come per far capire che la religione è solo un aspetto della psiche umana come tanti altri (può diventare una fissazione, una monomania). Alla fine sono i tipi come il curato di Torcy (i materiali) che sopravvivono e portano avanti le istituzioni. La vita completamente spirituale è quindi una nobile e impossibile utopia.
Il film è una trasposizione del romanzo di Bernanos, fin troppo letteraria. Per tutto il film c’è una voce fuori campo che legge il diario del curato mentre avvengono i fatti. In effetti si ha quasi l’impressione a volte di avere davanti un film muto con la voce narrante al posto delle didascalie. Il film è rigorosamente narrato in soggettiva. Si racconta sempre e solo quello che avviene nell’animo del Curato. Il paese è ostile al Curato, mette in giro voci, ma lo capiamo solo attraverso ciò che viene a sapere lui. Solo alla fine, quasi in punto di morte, quando non riesce quasi più a scrivere, la voce narrante tace e scorrono immagini di un uomo distrutto. L’agonia è raccontata con distacco da terzi. Tutto gira quindi intorno ad un’unica bellissima interpretazione. Bravo l’attore a dare un’immagine indimenticabile del Curato: emaciato, dimesso, con il suo atteggiamento malinconico/triste e tormentato. L’occhio si concede solo qualche bella immagine di chiese e portali gotici. Il resto sono scenografie estremamente semplici e dimesse, proprio per dare il senso di vita staccata dal fisico e dal materiale che conduce il protagonista. Una figura e una vicenda che rimangono senz’altro impressi.
Invia una mail all'autore del commento kowalsky  30/12/2007 21:40:47Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
E' uno di quei film per cui bisogna avere impresse certe immagini, o parole... una grandissima riflessione anche filosofica sulla vita, sulla fede, sul senso di spiritualità... personalmente penso che sia l'impotenza del curato a prevalere, davanti non alla sofferenza fisica della vita, ma davanti alla propria debolezza morale... e infatti il curato assume un ruolo passivo, sempre alla ricerca di un consenso o di un gesto d'affetto (come nelle parole all'inizio del film) che gli organi "alti" della chiesa considerano mancanza di dignità, di potere o un debolissimo ma celato egocentrismo. L'unica parte del film che mi ha lasciato perplesso è stato proprio quella dedicata alla contessa: in quel bisogno di liberazione, c'è anche l'indifesso mistero della morte.
Giuro che non avevo pensato a Goethe, ma ora che mi ci fai pensare...