Dom Cobb 5 / 10 12/06/2021 00:00:41 » Rispondi La storia dell'omonimo cavallo da corsa, che grazie all'intervento e alle cure del suo team, divenne inaspettatamente un campione, conquistando i cuori del popolo americano negli anni della Grande Depressione. Non posso scendere più in basso di così con il voto, perché riconosco che non è un film fatto male, anzi; ma allo stesso tempo, non posso neanche fare finta che mi abbia intrattenuto. La storia qui rappresentata è il classico esempio di emarginato che si riscatta, in questo caso un intero gruppo di emarginati, a modo loro, colpiti da tragedie personali, travolti dalle sfortune di un paese in pieno sbando economico o semplicemente solitari per natura:
Howard ha appena perso il figlio in un incidente d'auto e sta attraversando un divorzio, Pollard è costretto ad accettare i lavori più degradanti per una paga e Smith è uno a cui piace di più stare in compagnia di cavalli che di altre persone.
i parallelismi fra il cavallo e i tre uomini che finiranno per occuparsi di lui è uno dei molti affascinanti aspetti della storia cui purtroppo viene dato solo un trattamento superficiale. Purtroppo, una parabola di redenzione e trionfo potenzialmente interessante, o in ogni caso capace di sollevare lo spirito, viene trasformata dall'anonimo Gary Ross in un'ennesima, didascalica riproposizione di una serie di eventi che ormai si conoscono a memoria: l'incontro iniziale, il ritrovamento del cavallo, il duro addestramento, lo scetticismo iniziale, la lenta risalita cosparsa di intralci lungo la strada e così via. Tutto fila via liscio come l'olio, prevedibile e sicuro, per di più appesantito da una prima ora di farcita di inutili preamboli: l'idea è quella di introdurre i personaggi e raccontarci la loro storia, ma l'ossessione di incasellare così tante informazioni ha l'effetto opposto di quello sperato, visto che per lo più si tratta di informazioni inutili ai fini della storia, o che comunque potevano venir fornite in maniera più interessante.
Per dire, che m'importa dei trascorsi di Howard prima di darsi ai cavalli, che m'importa di ciò che faceva Smith prima di incontrarlo?
Il fatto è che, in modo che una storia simile possa funzionare bene, bisogna avere un solo protagonista, ruolo per il quale il fantino Red Pollard logicamente sarebbe più indicato. E la regia asettica di Ross non aiuta certo a emozionarsi alle varie tragedie qui rappresentate, visto il modo in cui glissa sui momenti più catartici o passa in fretta e furia ad altro senza lasciargli il tempo di avere l'impatto necessario. E' come se al regista stesso, e di conseguenza al film, non gliene potesse fregare di meno di ciò che succede sullo schermo.
La separazione dai genitori da parte di Pollard e la morte del figlio di Howard vengono trattati alla stregua di paragrafi sulle pagine di Wikipedia, avvengono e subito si passa alla prossima scena; anche momenti chiave come il primo incontro fra i tre uomini o fra Red e il cavallo, vengono buttati via senza dargli importanza, quando non vengono completamente omessi. Insomma, se un film riesce a mantenermi completamente apatico nei confronti della morte di un bambino, allora vuol dire che qualcosa non funziona.
Il trittico Maguire-Bridges-Cooper fa quello che può con dei ruoli marginalizzati e privi di spessore, quando non intrappolati nei classici stereotipi del caso, ma in modo ben poco sorprendente, nessuno di loro brilla. Oserei dire che sia Bridges che Cooper sono sprecati, visto il modo imbarazzante in cui la sceneggiatura si ostina a non volergli dare il tempo di costruire dei veri rapporti fra loro o dare un minimo di profondità ai loro personaggi. Perfino le scene di corse dei cavalli, per quanto ben realizzate tecnicamente, non lasciano nulla, causa un ritmo curiosamente letargico e musiche fin troppo quiete, che uccidono letteralmente ogni tentativo di creare tensione.
Un errore madornale è stato spostare la grande gara contro War Admiral a mezz'ora prima della fine, lasciando che tutto il resto assuma i connotati di un epilogo tirato estenuantemente per le lunghe. E il gran finale, anziché rincuorare, da l'impressione di un esito triste e deprimente, come se il cavallo fosse morto anziché aver vinto la corsa.
La cosa più frustrante è che il lato tecnico è a dir poco straordinario: scenografie ben curate, costumi sfarzosi ma senza dare troppo nell'occhio, un'eccellente ricostruzione tecnica e una fotografia da far spalancare la bocca e godere gli occhi danno un'idea di cosa un film del genere sarebbe stato nelle mani di un pezzo da novanta come Spielberg o Zemeckis (o magari addirittura Ron Howard). Ross, purtroppo, dopo l'interessante ma non molto esaltante "Pleasantville" e quella cura per l'insonnia chiamata "Hunger Games", continua a dimostrarsi niente più di un competente mestierante privo di stile e di qualsivoglia energia o capacità di provocare emozioni. In tutta la mia vita non mi è mai capitato di vedere un film così bello da guardare precipitare nella noia e indifferenza più totali, a dispetto delle sue meravigliose immagini. Non sarà il peggiore del suo genere, ma The Black Stallion è di un'altra galassia...