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IL RITORNO regia di Andrei Zvyagintsev

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kafka62     7½ / 10  28/02/2018 09:00:08Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Quando in un film il non detto prevale sul detto, il silenzio sulle parole e i vuoti narrativi sull'azione, allora nella testa di un critico cinematografico suona un campanello di avvertimento che vuol significare all'incirca questo: attenzione! simboli da decifrare, allegoria imminente, metafora in arrivo! E tutta la sua attenzione si concentra inevitabilmente sui possibili significati da attribuire a quella scena oscura, a quell'inquadratura apparentemente gratuita o a quel personaggio ambiguo. Ne "Il ritorno" di Andrej Zvjagintsev succede più o meno così. Tutto sembra fatto apposta per far scaturire domande senza risposta allo spettatore: ad esempio, chi è l'uomo che torna dopo dodici anni di assenza e si presenta come il padre dei due piccoli protagonisti? cosa ha fatto in tutto questo tempo? e che cosa lo spinge a portare i ragazzi in gita su un'isola deserta? che cos'è e cosa contiene la cassetta che egli dissotterra all'insaputa dei figli? Alcune di queste domande i due ragazzi le pongono direttamente al genitore, ma l'uomo le elude con una reticenza che ben si attaglia al suo personaggio rude, autoritario e di poche parole; e la sua morte improvvisa, anch'essa immotivata come gli avvenimenti che l'hanno preceduta, frustra anche la più remota speranza di un qualche scioglimento narrativo. Ecco così la necessità di una decrittazione in chiave simbolica di questa non-storia: c'è chi ha interpretato il film in chiave politica (il padre rappresenterebbe la vecchia Russia comunista), chi in chiave psicanalitica (il rapporto tra il padre e i due figli, soprattutto quello minore, come esemplificazione del complesso di Edipo), chi addirittura religiosa (il padre come figura divina, i cui precetti e i cui interdetti appaiono terribilmente immotivati e difficili da accettare). Da parte sua, il regista non ha voluto fornire alcuna interpretazione "autentica" del suo film, finendo per confondere ancora di più le idee, tanto più che in una delle ultime immagini (la fotografia trovata in auto dai due fratelli, identica a quella vista all'inizio salvo per il fatto che in essa manca misteriosamente proprio la figura paterna) sorge addirittura il dubbio che il padre, la cui materialità svanisce con l'affondamento della barca, non sia mai esistito.
Eppure, anche se si tralascia l'aspetto del messaggio, il film risulta ugualmente affascinante. Pur senza scomodare Tarkovskij, con il quale il maggiore punto di contatto è la comune origine geografica (se proprio si vuole attribuire una parentela artistica, preferisco semmai il Polanski de "Il coltello nell'acqua"), quella di Zvjagintsev è una pellicola di grande rigore formale e di rara intensità emotiva, in cui all'assenza di una vera e propria trama (anche se nella sequenza della morte del padre c'è un climax fortemente drammatico) suppliscono icastici primi piani di attori particolarmente ispirati o inquadrature suggestive in cui è la grande natura russa ad assurgere al ruolo di protagonista. Tutto è ben al di qua del limite del calligrafismo e dell'estetismo fine a se stesso, tanto più che "Il ritorno" ha messo a frutto la scarsità di finanziamenti a disposizione con uno stile scabro e asciutto lontanissimo da ogni tentazione di leziosità o di levigatezza visiva e con un uso di locations inedite e originali che nulla hanno di quella poeticità finta e artefatta che rovina molti film "d'autore".