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STRANGER THAN PARADISE regia di Jim Jarmusch

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Beefheart     7½ / 10  21/04/2008 16:40:56Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Secondo lungometraggio di Jarmusch che, sulla falsa riga del road-movie, riprende il discorso iniziato con il primo e che proseguirà nei successivi, sulla solitudine dell'individuo che vaga alla perenne ricerca di comunicabilità e di qualcosa che colmi gli immensi vuoti spirituali e materiali che ne caratterizzano l'esistenza. Pare che il tutto abbia richiesto solamente 13 giorni di lavorazione ed una spesa complessiva di circa 120 mila dollari. Tutto infatti tende ad un esasperato minimalismo, dovuto ad esigenze in parte economiche ed in parte stilistiche, volto ad evidenziare una quotidianità fatta di niente e di nessuno. Scabrosità, violenza e scene ad effetto, Jarmusch non sà nemmeno cosa siano; al contrario, protagonisti e chi li osserva, storditi dal pallido grigiore cromatico e psicologico che fa da sfondo agli eventi, vedono le loro emozioni ridotte ai minimi termini. Non a caso la pellicola è di un eccezionale bianco e nero decisamente più bianco che nero. Anche in questo caso, nell'allestimento delle ambientazioni, c'è parecchio beat-style, che trasuda dallo squallore e dalla povertà degli interni, arredati poco e male ed abitati da personaggi altrettanto "essenziali", "disomogenei" e "slegati" tra di loro. L'America di Jarmusch, al solito, è rigorosamente desolata e desolante, sia per chi ne fa parte, sia per chi se l'immaginava diversa e fatica ad integrarsi. Una storia assai povera di avvenimenti raccontata con una lunga serie di piani sequenza, spesso ad inquadratura fissa, intervallati da frequenti dissolvenze in nero. Tutto questo, suppongo, al fine di caricare di solennità anche i particolari più insignificanti. Un film suggestivo anche nella capacità di astrazione dalla realtà attraverso la totale assenza di riferimenti al tempo che sembra scivolare addosso ai personaggi. In questo contesto impersonale e mortificante non mancano comunque scene ironiche e grottesche come il lungo piano sequenza che insiste sui protagonisti seduti, uno accanto all'altro, nella buia sala cinematografica, con i volti scolpiti ed illuminati dalle luci del film in proiezione, intenti a mangiare pop-corn con gesti lenti, ripetitivi ed ipnotici. Simpaticamente assurdo anche il passaggio in cui la protagonista si imbatte casualmente in un estraneo che, per via del cappello che indossa, crede di riconoscerla come la persona che stava aspettando, le consegna una mazzetta di dollari e se ne và anonimamente, lasciandola, ancora una volta, sola e perplessa. Eccezionale infine la scena dei tre protagonisti girovaghi, fermi a contemplare e decantare il "bellissimo" paesaggio di Cleveland, che però il regista ci mostra con uno sfondo talmente saturo di bianco da lasciare visibile solo il primo piano. Niente di meglio per ribadire il concetto che, gira e rigira, ciò che rimane è sempre e solo il niente ovattato. Azzeccatissimo, in tal senso il finale beffardo. Non male sia le musiche blues di Screamin' Jay Hawkins sia gli intermezzi ad archi di John Lurie; il quale, insieme al collega musicista Richard Edson, si distingue anche per l'efficacissima interpretazione recitativa. Un prodotto ormai un pò superato ma comunque godibile e meritevole sia contestualizzato nelle sue coordinate storico-artistico-geografiche, che non.